Quando la diserzione è pratica storica e letteraria
NARRATIVA «Il cannocchiale del tenente Dumont», di Marino Magliani edito per L’orma
NARRATIVA «Il cannocchiale del tenente Dumont», di Marino Magliani edito per L’orma
Al centro del romanzo Il cannocchiale del tenente Dumont di Marino Magliani (L’orma, pp. 296, euro 20), c’è una diserzione. La cronaca ha inizio in Africa nel 1799, anno della proclamazione della Repubblica Partenopea, e termina alla fine del 1800, in Liguria. Tre soldati napoleonici si sono dati alla macchia nella campagna della Liguria, fuggendo dalla battaglia di Marengo, che vide la vittoria del console Napoleone nella seconda campagna d’Italia. Sono Lemoine, un ufficiale intellettuale, Dumont, un tenente visionario e Urruti, un basco senza complimenti.
HANNO FATTO la campagna d’Egitto, ma si sono stufati della guerra. Sono degli uomini alla macchia, senza più bandiere, perduti in un paesaggio ligure in bilico tra bellezza e desolazione. Nella loro esperienza esotica hanno scoperto gli effetti onirici dell’hascisc e per questo vengono inseguiti dal dottor Zomer, un medico olandese, che vorrebbe studiare gli effetti di questa nuova sostanza. Magliani scrive di ciò che conosce. Ecco che la fuga dei tre soldati, in fondo, diventa il paradigma di un’intera esistenza. L’autore stesso, ligure innestato da molti anni in Olanda, si considera un disertore. Ma non un fuggitivo. «Perché disertore non significa mica sbandato, uno sbanda e bene o male si risolve, ma disertare è qualcosa che non finisce, diventa una missione, una carriera. Un grado. A uno dovrebbero scriverlo sulla pietra. Gerard Henri Dumont. Disertore».
Gli stessi soldati non sono in fuga. In realtà, la loro è un’esplorazione, un viaggio all’interno di un mondo e di una natura che non hanno mai conosciuto, o che hanno perduto. Questa Liguria è un territorio, una terra-madre, che non c’è più. Che l’autore sente di aver perduto per sempre. E che cerca di recuperare a ritroso e per interposta persona. «Del viaggio rimangono impresse queste cose, le cose da poco, il genere di oggetti di vigna, anche se la vendemmia è ancora lontana, la riga di botti e damigiane poste sui muretti dei paesi, una fontana con cannello di legno, lo strano modello d’erpice. (…) Non c’è mai un motivo per cui restano impresse certe cose e non altre (…)».
Protagonista principale è il tenente Dumont, condannato a vagare come un Ulisse senza Itaca. Pur nella sua collocazione ottocentesca, egli s’impone come un personaggio vivo, che non vaga, che non ha mai perso la speranza, pur consapevole che non può vendicare l’ingiustizia di un mondo in guerra permanente, dentro un’umanità in uniforme (o in mimetica) permanente. La sua diserzione lascia aperto il futuro ad una possibilità di riscatto, di vita, con la sua arte, le sue montagne dove forse ritrova la dignità, il tempo, l’amore. «Ti accorgerai, come stia mancando qualcosa a questa pagine, e del resto non potrebbe sfuggirti. Non fosse che sei un grande lettore. Ed è che in tutto questo tempo, pur sapendo che ero riuscito a recuperarlo e che lo tenevo nella bisaccia, Enrico non mi chiese mai di dargli in cannocchiale per guardare in giro».
IL ROMANZO possiede un sapore che ci richiama Leonardo Sciascia e la sua «ossessione» per la storia e le storie. Magliani apre la sua con un elenco dei «materiali di questo libro» – carteggi, dispacci, appunti ma anche oggetti, palle di piombo da moschetto, fibbie, borchie e bottoni – che costituiscono le fondamenta e i mattoni della sua architettura narrativa. Questi «materiali» sembrano alludere alle «carte con le quali si fa la storia». E al lettore resta il piacere di scoprire che la storia non sia sufficiente a raccontare la verità. Che, per paradosso, sia la letteratura e la finzione a possedere la lente, il cannocchiale, per avvistare ciò che altrimenti ci resterebbe nascosto, invisibile.
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