Visioni

Quando la banda delle deloniane litigava con le brandoniane

Quando la banda delle deloniane litigava con le brandonianeAlain Delon ne "Il gattopardo" di Luchino Visconti (1963)

Cinema Alain Delon tra educazione sentimentale e immaginario collettivo. Portava nei film la sua avvenenza con tale noncuranza che diventava sensuale, felino

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 20 agosto 2024

Se i conflitti fossero tutti così, come quando da ragazzine ci accapigliavamo, metaforicamente parlando, per assegnare il primato di bello e impossibile ad Alain Delon o Marlon Brando, il mondo sarebbe un posto molto meglio vivibile, più divertente e assai meno violento. Alla fine ognuna restava della propria idea, e lo sapevamo fin dall’inizio che sarebbe andata così, ma il bello era poter confrontare le ragioni per cui ci piaceva più uno dell’altro.

Dietro quello scontro fra gusti ed estetica c’era anche la consapevolezza che, di qualunque partito si facesse parte, subivamo il fascino del bello e dannato, quello per il tipo che ti prende e ti molla, che mentre bacia te ne guarda altre venti, così intrigante e tormentato e sensuale e inarrivabile che va bene, in fondo, se resta dov’è, nel mondo dei sogni, perché sennò sono dolori e delusioni. Vedere i nostri idoli sullo schermo ci bastava. Anzi, era proprio quello che volevamo per sublimare nell’immaginario quel fervore carnale che agognavamo conoscere nella vita concreta, sulla nostra pelle, e che per le più fortunate di noi sarebbe arrivato anni dopo.

NASCEVA, quel conflitto tutto platonico, da innamoramenti furiosi e altrettanto platonici come solo l’adolescenza sa produrre. C’erano, al liceo, le Deloniane e le Brandoniane, due bande spontanee nate guardando i film quasi sempre e solo in televisione perché quando uscirono Fronte del Porto, Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo non eravamo ancora nate. Quando nelle sale arrivarono La piscina, Ultimo tango a Parigi, che comunque avremmo potuto vedere molti anni dopo causa censura e pellicola al rogo, o La prima notte di quiete eravamo troppo piccole per esservi ammesse. Di conseguenza, le nostre passioni si nutrivano anche di foto, copertine, servizi e interviste che comparivano sui giornali.
Le ragioni per cui Alain Delon veniva considerato più bello e sensuale di Marlon Brando, o il contrario, non erano esplicitate con argomentazioni di pregnante dialettica. Più che altro era una lotta fra «Ma guarda che occhi» e «Ma guarda che spalle», «Hai visto come bacia» o «Nessuno sa guardarti così».

Confondevamo, con la complicità dell’inconscio, e quindi volevamo confondere, la finzione della scena con la vita reale. Eravamo determinate a convincerci che Alain Delon, o Marlon Brando, nella realtà fossero davvero come nei film perché avevamo bisogno di credere che nella vita esistessero davvero dei tipi così, che ti fanno andare fuori di testa e poi magari si innamorano per davvero.

Molte di noi, della mia generazione ma non solo, hanno ricevuto un’educazione sentimentale guidata da quei film, siamo state marchiate da un imprinting seduttivo da Ti prendo e ti strapazzo e per questo ci interessavano poco o niente i bravi ragazzi. I bravi ragazzi che ti vogliono sposare non ci facevano sognare avventure e neanche passioni. Non volevamo la famiglia regolare. Volevamo scoprire l’ignoto del mondo, dei nostri corpi, di noi stesse, dell’altro.

Alain Delon prometteva tutto ciò. La sua forza non stava tanto nella perfezione dei lineamenti. Di uomini e attori oggettivamente bellissimi ce n’erano e ce ne sono tanti. Lui aveva, ha, molto di più. Nonostante all’epoca fossi una Brandoniana (mi piaceva la faccia da inizio del disfacimento che Brando ha in Ultimo tango a Parigi), capivo molto bene le ragioni delle Deloniane. Delon aveva lo sguardo. La cinepresa lo inquadrava e dai suoi occhi usciva una luce ficcante e distante insieme, penetrava e restava lontano, in un suo mondo inaccessibile, era con te e fuori da te nello stesso tempo. Ti faceva venir voglia di iniziare il gioco della seduzione per vedere chi avrebbe ceduto per primo o prima, e se avrebbe ceduto, soprattutto.

CI SONO attori belli che sanno di esserlo eppure continuano a preoccuparsi di come appaiono, e si vede. Alla fine diventano stucchevoli, noiosi. Che te ne fai di un narcisista? Delon dava l’impressione di fregarsene di come appariva. Portava nei film la sua avvenenza, finché c’è stata, con tale noncurante fatalismo che diventava sensuale, felino, magnetico.
Alla fine, nella realtà come nel cinema, è tutto una questione di luce. In alcuni è innata. In altri si accende quando un regista sa come inquadrarti. Finito il film, resta la vita, ma quella è un’altra storia, anche per Alain Delon.

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