Meritoriamente la casa editrice Giuntina, nel suo lungo e costante impegno per fare conoscere in Italia non solo la cultura ebraica ma anche il dibattito, non meno ampio, sulla presenza e il suo contributo nelle nostre società, ha pubblicato una serie di saggi di Saul Friedländer, comparsi, in origine, in volumi che non hanno fino ad ora conosciuto una traduzione italiana. Il lavoro pioneristico su Lo sterminio degli ebrei (Giuntina, pp. 160, euro 16) è a cura di Simon Levis Sullam (per la traduzione di Rosanella Volponi) che, insieme ad altri studiosi da tempo sta lavorando sulla storicizzazione critica della Shoah.

UNA NOTA DI CORREDO – che poi tale non vuole essere se non come richiamo critico – non può che rimandare al fatto che un approccio secolarizzato alla vicenda degli stermini non potrà mai essere inteso come alternativa esclusiva ai discorsi sui processi di emancipazione che pure hanno accompagnato un secolo così denso come quello appena trascorso. Una riflessione a tutto campo sulle vittime, in una cultura politica che si vuole progressiva, non potrà quindi mai costituire una rovesciamento della narrazione delle conquiste dei diritti. Semmai, ci restituisce la trama novecentesca di un ordito dove azioni e reazioni, diritti e loro soppressione, umanità e disumanità molto spesso si accompagnano a braccetto. In fondo, il tempo che ereditiamo è quello dove i contrasti e le antinomie si tengono insieme. In altre parole, il ricordo non è mai lineare. Saul Friedländer ne è un esempio, a partire dalla sua vicenda personale. Salvato da cristiani, e come tale considerato, con la fine della guerra cercò di recuperare qualcosa della sua matrice ebraica, emigrando poi in Israele con la nave Altalena, organizzata dal sionismo revisionista, quello dei sostenitori di Vladimir Ze’ev Jabostinsky. Più caso che scelta, per capirci. Gli studi universitari li svolse tuttavia in Francia, una sorta di patria elettiva, per poi assumere, fin da giovane, funzioni di collaborazione e coordinamento con gli organismi ebraico-israeliani. Quella che altrimenti sarebbe stata una carriera di funzionario pubblico, a circa trent’anni assunse invece la piegatura della ricerca e dell’insegnamento, con un dottorato ginevrino, la città dove a lungo fu docente universitario, al pari degli atenei di Gerusalemme e Tel Aviv da lui a lungo frequentati. Dal 1988, infine, è divenuto insegnate all’Ucla, in quel di Los Angeles, dove è adesso professore emerito.

LA SUA FISIONOMIA intellettuale è non meno interessante: nato a Praga, cresciuto a dirimpetto della cultura tedesca e mitteleuropea, sopravvissuto poi all’occupazione nazista mentre la sua famiglia veniva distrutta da essa distrutta, si ibridò sia con la Francia (quando però il conservatorismo reazionario di Vichy era moneta corrente) che con l’Israele del primi trent’anni della sua esistenza (aderendo poi al movimento Peace Now). In seguito, grazie al suo cosmopolitismo culturale, è approdato anche negli Stati Uniti. Non di meno, l’autore è prima di tutto uno studioso del nazismo, dal quale fa derivare una riflessione a tutto campo non solo sul fatto storico del genocidio ma soprattutto sui riflessi di lungo periodo che esso ha generato. Uno dei suoi libri, apparentemente minori ma invece essenziale per capire le logiche con le quali il fenomeno fascista, in senso lato, si affermò in Europa e perdurò oltre la caduta dei regimi che espresse, è Reflections of Nazism: an Essay on Kitsch and Death, uscito nel 1983 in Francia e poi tradotto in inglese. Il testo, che rivela le felici contaminazioni con le riflessioni di Susan Sontag e con quanti già all’epoca si muovevano nell’ottica del rapporto tra evento e raffigurazione, ci consegna una complessa riflessione su come una subcultura della morte non si esaurisca con i soggetti storici che ne sono vettori ma diventi una sorta di paradigma di un’intera epoca. Non solo, per Friedländer, quella a cavallo tra due guerre mondiali ma, piuttosto, il Novecento nel suo insieme come tale. Infine travalicandolo, per giungere fino a noi sotto forma di sedimenti irrisolti. Poiché il costante impegno dell’autore è quello di legare simbolo a fatto, icona a oggetto, idealizzazione ad azione, rito a manipolazione e quant’altro. Va da sé, a questo punto del discorso, che molte delle cose scritte da Saul Friedländer travalichino la storia come dimensione fattuale, non meno che disciplinare, per incontrarsi semmai con la psicoanalisi, di cui è una sorta di allievo incostante, così come con l’antropologia e la psicologia sociale. Al netto delle correnti storiografiche, l’autore è soprattutto un esegeta critico di quel «culto della morte» che si accompagna alla modernità. Nel nazismo vede, per molti aspetti, l’apoteosi di qualcosa che gli preesisteva e, al netto dell’apocalisse che generò e per la quale la sua stessa fortuna infine crollò, una sorta di filone del pensiero destinato comunque a sopravvivergli, sia pure per frammenti scomposti, nei tempi successivi. Giungendo quindi a noi.

LA SELEZIONE DI TESTI curata da Simon Levis Sullam offre molti agganci al riguardo, tuttavia evitando le retoriche gratuite sul «nazismo eterno». Poiché non è mai il nazifascismo a rendersi astorico bensì le componenti che esso sa raccogliere, sublimare e metabolizzare nel loro sussistere, prescindendo dai regimi che danno ad esse respiro e legittimazione. Non a caso, quindi, il nazismo (e di riflesso i fascismi europei), per l’autore ci interrogano sulla dimensione intrinsecamente criminogena dello Stato contemporaneo. A tale riguardo, Friedländer intervenendo nel dibattito in corso nella storiografia tedesca, rilevava già negli anni Ottanta come comunque il regime hitleriano non potesse essere catalogato sotto l’indice di una qualche «normalità» e continuità. La vicenda nazista è senz’altro discorso a sé. Le eventuali linee di continuità non possono omettere il riferimento all’eccezionalismo che qualsiasi fascismo porta storicamente con sé. In altre parole, lo sforzo di storicizzazione non può tradursi in parificazioni e, ancora meno, in pacificazioni. Ossia, in culti dell’oblio. Il nazismo rimane un progetto biopolitico portato alle estreme conseguenze: una selezione dell’umanità, secondo una sordida ideologia razzista fatta passare per espressione di razionalità utilitarista.
In altre parole ancora, si storicizza non se si annacquano le specificità ma se si è capaci, per l’appunto, di coglierne le peculiarità così come le porosità. Ovvero, la loro capacità di trasformarsi da dimensione straordinaria in accettabile percorso ordinario. Il nazismo, alla resa dei conti, rese concepibile (e attuabile) ciò che altrimenti sarebbe rimasto consegnato alla sfera dell’inaccettabile.

Rimane tuttavia il fatto che un’illusione collettiva non costituisca una pretesa esigibile. Tutta la produzione storiografica di Saul Friedländer si è quindi orientata, nel corso dei suoi studi, su questo indirizzo di fondo. È pertanto un merito dell’autore (così come del curatore), che il baricentramento del discorso sulla Shoah avvenga sulle logiche di lungo periodo, dove l’evento in sé non si esaurisce nei fatti che lo corredano ma raccoglie una larga eco, un riverbero che va oltre la cronaca, quindi un sistema a cerchi concentrici che si spinge fino al presente.
Esattamente ciò che invece infastidisce, al medesimo tempo, gli apologeti del passato (ossia i chierici che rivendicano una sua normalizzazione) al pari dei sacerdoti di un’inesistente continuità del pensiero critico, quello che da sé costituirebbe – invece – una sorta di immunizzazione dalla barbarie. Ad esempio, ad un certo punto l’autore afferma che «appare logico supporre che un nuovo discorso sul nazismo si sviluppi allo stesso livello dei fantasmi, delle immagini e delle emozioni. Più che le categorie ideologiche, è una questione di riscoperta della persistenza di queste immagini profondamente radicate, della struttura di questi fantasmi comuni sia alla destra che alla sinistra». Beninteso, nessuna equiparazione.

SEMMAI, si tratta di ragionare su come un regime dittatoriale «essenzialista», ossia basato sulla capacità elementare ed essenziale di creare e poi governare angosce collettive, sia stato in grado di orientare un’intera collettività nazionale, e poi europea, sulla scorta del gioco di rifrazione delle paure comuni. Si tratta di un tema che rimanda non a ciò che fu bensì a quello che potrebbe ancora essere. Leggere Friedländer, quindi, non serve solo per capire quel che avvenne ma quanto potrebbe verificarsi ancora. Il passato non si ripete mai ma molti dei suoi elementi, sia pure in diverse costellazioni politiche, a volte insospettabili, non si sono per nulla esauriti. A modo suo, lo aveva già capito Walter Benjamin.