Quando il fascismo militarizzò il lavoro nelle campagne
Saggi «Sindacalismo in camicia nera» di Francesco Altamura, pubblicato dalle edizioni dal Sud
Saggi «Sindacalismo in camicia nera» di Francesco Altamura, pubblicato dalle edizioni dal Sud
Le trasformazioni ottocentesche delle campagne, inclusa l’avanzata di forme capitalistiche di produzione e di rapporti salariali, fecero dell’Italia rurale un laboratorio di conflitti, organizzazione e trasformazione culturale. L’epicentro dell’ascesa del bracciantato a soggetto sociale e politico fu la pianura padana, una storia ben restituita dallo studio ormai classico di Guido Crainz (Padania, Donzelli 1992) e dai contributi successivi di Marco Fincardi (Campagne emiliane in transizione, Clueb 2008). Se sono note, anche se tuttora meritevoli di approfondimenti e reinterpretazioni, le vicende dell’ascesa del movimento bracciantile, la sconfitta epocale dei primi anni Venti del Novecento riconsegnò i lavoratori della terra alla subordinazione. L’affermazione del fascismo, che molto dovette allo squadrismo agrario, riconsegnò i braccianti al dominio dei proprietari terrieri e degli imprenditori agricoli, condizione che si è tradotta in un relativo silenzio storiografico. Tuttavia, il regresso sociale e politico non avrebbe potuto essere un mero «ritorno» alla condizioni precedenti: la consistenza, la forza e la relativa estraneità del bracciantato al regime, pur represso nelle azioni e privato dell’autonomia, continuavano a impensierire le autorità fasciste, che proposero una tanto esplicita quanto velleitaria «sbracciantizzazione» e, più realisticamente, cercarono di inquadrare nel sindacato di Stato i salariati agricoli, mantenendo e parzialmente svuotando alcune delle loro storiche conquiste (il contratto collettivo, il collocamento, l’imponibile di manodopera) e introducendo qualche novità (sul piano previdenziale e assistenziale).
TALORA SI DIMENTICA che questo percorso storico non fu limitato ai braccianti padani. Un altro spazio italiano fu caratterizzato in età contemporanea dall’importanza del bracciantato: la Puglia, che non a caso espresse un dirigente di straordinaria levatura, come Giuseppe Di Vittorio (nato a Cerignola, nel foggiano, nel 1892). Se i contorni dell’ascesa del movimento e della sua sconfitta sono stati ricostruiti, minore è stata l’attenzione verso l’esperienza bracciantile nella Puglia fascistizzata. Contribuisce ora a colmare questa lacuna Sindacalismo in camicia nera, libro nel quale Francesco Altamura rielabora la sua tesi di dottorato sull’«organizzazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura in Puglia e Lucania (1928-1943)» (Edizioni dal Sud, pp.320, euro 18).
Tre almeno sono i meriti di questo lavoro: procedere a un profondo scavo archivistico per ovviare all’assenza di fonti dirette (cioè degli archivi dei sindacati fascisti); integrare gli studi esistenti sul corporativismo del regime con una prospettiva non limitata all’elaborazione politico-giuridica e alle istituzioni centrali, che permette di verificare la reale portata e incidenza sul territorio delle direttive romane; proporre alcune importanti rilievi che eccedono la dimensione istituzionale, per interrogare l’esperienza bracciantile, un indirizzo di storia sociale e culturale dei gruppi subalterni che sarebbe bene tornare a frequentare, approfondendo o rivedendo le acquisizioni storiografiche di altre stagioni di ricerca.
L’AUTONOMIA di cui godeva l’agraria non venne minimamente intaccata dal corporativismo: i signori della terra infrangevano continuamente i patti sottoscritti, lasciarono sulla carta il collocamento pubblico e centralizzato (e la gestione delle migrazioni), approfittarono della frammentazione sindacale (lo «sbloccamento» nel 1928 della confederazione unica rossoniana) e versarono solo a tratti i contributi assicurativi dovuti.
Gli esiti questo ritrovato potere padronale furono inevitabili: i salari, compartimentati per «zone», furono decurtati e incerti; il reclutamento si faceva spesso in piazza ed era del tutto discrezionale, anche se i lavoratori furono costretti a iscriversi al sindacato per accedere al collocamento. Risultò privata di basi finanziarie l’assistenza sociale, che avrebbe dovuto rappresentare una pur piccola integrazione a questo peggioramento della situazione. D’altro canto, il sindacato soffriva della continua ridefinizione del proprio ruolo, della mancanza di risorse e di quadri, dell’avvicendamento dei dirigenti, per la dilagante corruzione, ma anche per la persistenza di residui classisti.
SONO QUESTE DINAMICHE a spiegare la presenza di iniziative comuniste e di vere e proprie rivolte, nel quadro di una generale diffidenza bracciantile verso i sindacati, prodotta dalla memoria della situazione precedente, dal trauma dello squadrismo e dall’esperienza concreta degli anni Venti e Trenta, che portò a percepire spesso i sindacalisti di regime come elementi parassitari. Il loro ruolo in realtà mutò a più riprese, contribuendo al disorientamento degli stessi quadri e dei lavoratori. Negli anni di guerra il sindacato divenne del tutto superfluo, poiché la fame di braccia spinse a concessioni salariali al di fuori della mediazione di un apparato che infine la precettazione e militarizzazione del lavoro screditarono definitivamente. Nella regione divisa, furono saranno le vie del recupero dell’autonomia sindacale, a seconda che l’autorità fosse esercitata dai «badogliani» del Regno del Sud (che in primo tempo conservarono il sindacalismo di Stato) o direttamente dal governo militare alleato (che invece lo abolì da subito).
Il libro di Altamura unisce rigore e passione e conferma il salutare ritorno delle più giovani generazioni di studiosi all’interesse per la storia del lavoro e dei lavoratori: senza la quale la memoria si esaurisce nella dimensione privata o locale e, soprattutto, non è possibile interpretare continuità e discontinuità del presente per provare a cambiarne le dinamiche.
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