Lateef, quando il blues incontrò l’Oriente e il suono dell’oboe
Musica Addio al jazzista Yusef Lateef sperimentatore tra il be-bop, l’India, il ritmo interiore
Musica Addio al jazzista Yusef Lateef sperimentatore tra il be-bop, l’India, il ritmo interiore
Il suo testamento l’ha scritto il 19 ottobre dello scorso anno al Teatro Dal Verme di Milano. In coppia col percussionista Adam Rudolph ha suonato il sax tenore (il suo strumento principale), il flauto classico e vari flautini di legno, il pianoforte. E ha fatto ascoltare la sua voce strascicata, carica di stanchezza e di musicalità preziosa, in recitativi e in vere accennate melodie, un non-canto di perdizione tra i sotterranei delle città e un sogno intimista di spiritualità antica/originaria. Con gli strumenti a fiato e col pianoforte ha mostrato la sua compiuta maturità di musicista d’avanguardia. Frasi spezzate, note singole isolate, congiunzioni di suoni che miracolosamente si rivelavano cantabili. Un linguaggio sconvolgente. Elaborato al termine di una carriera lunga più di sessant’anni, attaverso il jazz «militante», l’insegnamento, la teorizzazione di una «musica del sé fisio-psichico» (autophysiopsychic).
Nei prodigiosi Settanta si ascoltava l’oboe (il secondo strumento principale) di Yusef Lateef in Blues for the Orient con devozione e rispetto. Il brano-manifesto dell’album-manifesto Eastern Sounds. C’entravano le antenne empatiche rivolte a est? Ma no. Tantopiù che l’album era uscito nel 1961. Però lo si scopriva allora nelle case di quelli che amavano il jazz e non erano degli esperti con tutte le date e le uscite discografiche sulla punta della lingua (e magari niente nella zucca).
Yusef Lateef. Nome assunto nel 1950, dopo la conversione all’Islam, da William Emanuel Huddleston, nato il 9 ottobre 1920 a Chattanooga, Tennessee. Anche in questo aveva anticipato i tempi, cioè i Sessanta dei neri americani radicali che aderivano all’idea di una Grande Nazione africana e musulmana. Un artista importante, Lateef. Seguito con affetto e parecchia trascuratezza come si seguono le carriere dei «minori». È morto il 23 dicembre scorso all’età di 93 anni.
Cosa c’è di singolare nella sua esplorazione dei suoni orientali compiuta a partire dal blues e naturalmente dal be-bop? C’è un riflessivo procedere in bilico tra i giri di accordi e le scale modali, sempre più privilegiate, sempre più prelevate dal patrimonio delle tradizioni dell’India, della Cina, del medioriente, evitando il virtuosismo e gli stereotipi dell’improvvisazione jazz. Un melodista parco e passionale, ispirato e rigoroso. Blues for the Orient è esemplare della sua poetica di quegli anni. La base è un blues classico o una linea di suoni con sapori d’India e di Marocco insieme? Difficile rispondere. Non c’è un vero tema, le inflessioni «esotiche» aprono il brano che, però, è da subito sostenuto da una pulsazione solenne e sospesa. Poi le inflessioni blues prevalgono e il battito diventa più regolare secondo i criteri del più regolare swing modernista. Ma nelle parti di elaborazione improvvisata i tocchi blues e est si fondono, trovano la radice comune di due idiomi.
Blues, musica nera spirituale, oriente. E poi musiche da film (celebre, nello stesso album, la versione di Love Theme from «Spartacus» di Alex North), ballads. E aperture personalissime verso il free che si notano in album come 1984 e Psychicemotus del 1965. C’è tutto questo nell’opera di Lateef, documentata da cinquantacinque album a suo nome. Gli inizi importanti con l’orchestra di Dizzy Gillespie nel 1949, gli studi musicali accademici a più riprese, le prime registrazioni proprie alla fine dei ’50, i suoni d’Oriente, il free, le sortite tipo fusion e tipo new age (mai scadenti), l’insegnamento in Nigeria e in Usa. Lateef continua a suonare e comporre. Rimane piuttosto nell’ombra e, un anno fa a Milano, nessuno capisce il perché.
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