«Due ciminiere e un campo di neve fradicia»: suona esangue la Padania nelle liriche degli Afterhours. Eppure nell’epica classica era terra ancestrale di vita fertile, elargita a ondate dal grande fiume. Senonché – racconta Ovidio – nelle acque del Po cadde un giorno Fetonte. A fulminarlo fu Zeus, perché il figlio del Sole aveva rasentato con il carro paterno la Terra, prosciugandola e bruciandone i campi.
San Daniele Po sorge presso Cremona, sulla riva sinistra di quel che resta del mitico Eridano. Qui Davide Persico, docente di paleocologia e paleobiologia all’Università degli Studi di Parma e autore del saggio I fossili delle alluvioni (Delmiglio edizioni), nel 1998 ha fondato il Museo paleoantropologico del Po, dedicato all’evoluzione naturale e climatica della Pianura padana. L’istituto, da allora, si distingue per un quotidiano servizio di citizen science. Senza la collaborazione dei cittadini, non avrebbe nulla da esporre nelle teche.

Non sarebbe importante disincentivare la raccolta di reperti da parte dei non esperti?
Preferiamo ragionare in termini di formazione e buona educazione. Nel 1998, gli anziani del posto pensavano ancora che i resti ossei rinvenuti sulle spiagge fluviali appartenessero ai cavalli annegati durante la ritirata dei tedeschi nel 1945. Di quella tragedia, conservavano il ricordo. Abbiamo spiegato loro che c’è ben altro, lungo il fiume. Quindi abbiamo definito modalità di segnalazione, raccolta e consegna dei fossili. La collezione museale, costituita da quattromila pezzi, è stata messa insieme da persone che, pur rinvenendoli accidentalmente, prima hanno saputo riconoscere quei reperti, poi hanno voluto imparare con noi a classificarli e ora sono più preparate a identificarne di simili. A contare non è tanto la quantità, quanto l’importanza delle specie individuate. Appartengono, infatti, a una trentina di grandi mammiferi, tra cui alcuni finora mai segnalati nell’Italia settentrionale: leopardo, leone, iena, cervalce. E un osso frontale neanderthaliano, probabilmente riferibile a una donna adulta.

Perché i fossili finiscono con frequenza su determinate spiagge del fiume?
I sedimenti si riducono nelle dimensioni a mano a mano che ci si sposta verso la foce: a monte troviamo in deposizione la ghiaia, al centro la sabbia, a valle argilla e limo. I fossili, avendo dimensioni pari o superiori a quelle della ghiaia, si riscontrano principalmente impastati con essa. Il possesso di queste informazioni consente ai cittadini di capire quali siano le aree giuste per la raccolta. Sanno anche come orientarsi in un meandro. Lì la corrente interagisce sulle due sponde in maniera diversa. All’interno, tutto il materiale sedimentario eroso a monte viene accumulato sulla spiaggia. Sulla sponda opposta, invece, il fiume scava sedimenti che verranno depositati nel meandro successivo.

Qual è il tratto del fiume Po più produttivo?
Quello che va da Isola Serafini, alle porte di Cremona, fino a San Daniele Po. Le ossa appena dissepolte si trovano nel primo tratto, dove devono nascondersi dei giacimenti fossiliferi primari. Per le nostre ricerche, sono fondamentali l’intensità delle correnti e il tempo che intercorre tra una piena e la magra. Se l’intervallo è rapido, il materiale deposto rimane in evidenza sulle spiagge. Se è lungo, i ritrovamenti saranno difficoltosi: i fossili verranno progressivamente ricoperti dal sedimento più fine. Dopo l’alluvione del 2000, quando il ritmo della natura era regolare, per tre anni le nostre ricognizioni procedettero con fortuna. Ma il Po non va più in piena dalla primavera del 2021. Di piene attese, già ne ha saltate quattro. Già riscontriamo le stesse condizioni delle magre agostane.

Come si sono formati gli strati scavati dal fiume?
Prima di un milione di anni fa, la pianura era un mare. Si scoprono infatti resti di balene e denti di squalo fin sulle colline di Salsomaggiore e Castell’Arquato. Poi sono arrivate le alluvioni. I nostri fossili risalgono al massimo a 180mila anni fa. Il sedimento marino può trovarsi anche a 2 km di profondità. Tra questo e la superficie si distendono diversi paleosuoli, calpestati dagli animali di cui recuperiamo traccia. Ai lati del Po, si estendeva una palude immensa che defluiva gradualmente, soggetta a cicli di piena e siccità. Feconda, ma pericolosa a causa del fango. Tanti animali vi rimasero intrappolati e si fossilizzarono. Il vantaggio dei fossili alluvionali è che non bisogna scavare per cercarli. Tuttavia, sono alloctoni: lontani dallo strato di origine, non databili.

Megaceri (femmina e maschio)

In compenso, spesso si ricavano informazioni dettagliate grazie all’ottimo stato di conservazione…
È il caso del cranio del rinoceronte di Merck. Dai suoi denti abbiamo estratto oltre cinque grammi di torba. I residui sono stati analizzati da una palinologa russa, che nei pollini ha riconosciuto numerose specie: probabilmente, un retaggio dell’ultimo pasto. La torba era completamente sovraccarica di pollini di olivello spinoso: una pianta cespugliosa di cui il rinoceronte era ghiotto, che oggi prolifera nella media montagna e sul litorale. L’olivello fiorisce in tarda primavera. Del nostro rinoceronte, sappiamo quindi anche la stagione della morte.

Cosa ci dicono i fossili sulle migrazioni climatiche?
Poco o niente la tibia esposta in museo del leopardo, che è una specie adattabile a varie condizioni climatiche, dalla savana africana all’Himalaya. È perciò un cosmopolita, come il lupo: un pessimo fossile paleoambientale. Indicativi sono invece la iena maculata, l’ippopotamo e il rinoceronte: si sono espansi a macchia d’olio a causa dell’ampliamento dell’areale di vita ottimale, durante la fase calda, per poi ritirarsi in seguito alle glaciazioni. Allora, dal freddo, vennero in Pianura padana il mammut e le alci, i bisonti a alcune specie ancora esistenti, come lo stambecco, che sarebbero salite sui monti con il ritorno a uno stadio più temperato.

Lei, oltre a studiare il paleoclima padano, ha indagato quello dell’Antartide, nel 2006 e nel 2007. Le due esperienze offrono un insegnamento comune?
Nel Mare di Ross abbiamo estratto delle carote di roccia per ricostruire le variazioni climatiche degli ultimi 50 milioni di anni. Tanto lì quanto lungo il Po è evidente come sempre ci siano state fluttuazioni, legate ai movimenti orbitali del nostro pianeta, che hanno per esempio determinano periodi glaciali e interglaciali. In tempi lunghissimi, però. Quello che sta accadendo oggi esula invece dai cicli astronomici e, soprattutto, si sta manifestando in tempistiche umane, non geologiche. Il Carbonifero è durato 160 milioni di anni: le sterminate foreste che ricoprivano allora la Terra hanno assorbito anidride carbonica, che immagazzinata nel sottosuolo è diventata carbone. Di tutto quel carbone, pare che solo a partire dal 1890 ne abbiamo consumato oltre il 70%. 130 anni per arrivare quasi a bruciarne 160 milioni.

 

SCHEDA

Un vasto e complesso microcosmo oceanico vissuto 462 milioni di anni fa, in ottimo stato di conservazione, è stato riportato alla luce a Castle Bank, nel Galles centrale, da un gruppo di lavoro guidato dal Nanjing Institute of Geology and Paleontology dell’Accademia cinese delle Scienze. La scoperta, effettuata nel 2020 da Joe Botting e Lucy Muir, è pubblicata sul numero di maggio della rivista britannica Nature Ecology & Evolution. Gli strati – inizialmente trascurati, ma poi studiati in laboratorio durante il lockdown – hanno rivelato la presenza di oltre 150 specie. Nonostante sapessimo abbastanza sulla biologia del Cambriano, poche erano finora le testimonianze sugli sviluppi successivi della vita. E Castle Bank risale proprio alla metà del periodo seguente: l’Ordoviciano, noto per un’esplosione della biodiversità dalle dinamiche tuttavia ancora nebulose. Solo verso la sua fine apparvero ecosistemi a noi più familiari, come le barriere coralline. La maggior parte degli animali di Castle Rock è lunga tra 1 e 3 mm. Si tratta di artropodi, come crostacei e granchi a ferro di cavallo, e vari tipi di vermi, di spugne e di stelle marine. In diversi casi si conservano perfino gli organi interni, dall’apparato digerente ai nervi. fe. gu.