“Io cerco sempre di ascoltare. Sembra niente, vero? E invece è importante. Molto di più di quanto sembri. Sentiamo tutto, ma non ascoltiamo niente”. Sono parole di Giuseppe Sgarbi nel suo ultimo libro “Il canale dei cuori”. Si può ascoltare l’arte? Forse sì. Le centotrenta opere della Collezione Cavallini Sgarbi, da Niccolò dell’Arca a Gaetano Previati: Tesori d’arte per Ferrara, in mostra al Castello Estense della città fino al 13 giugno, raccontano, a volte sommessamente a volte vivacemente come in un grido di vittoria, la storia di una collezione che è venuta arricchendo negli anni orchestrata dalla vorace curiosità di Vittorio Sgarbi: “Ricordo ancora l’entusiasmo e lo stupore per aver individuato a Venezia, nello studio di un antiquario sofisticato, la “Sibilla”(1600-06) di Carlo Bononi, sorniona, malinconica, coccolata dai suoi assistenti”, e da sua madre Rina Cavallini, intelligente suggeritrice e abile inseguitrice di aste, che quando il figlio iniziò la sua avventura decise subito di accompagnarlo e di assumersi un ruolo da comprimaria: “Di solito funziona così: mi porta i cataloghi, mi fa vedere le cose che lo appassionano di più e, a volte, mi dà qualche indicazione sulla cifra alla quale è possibile arrivare. Ma poi aggiunge: Mi fido di te”. L’interesse e il culto per l’arte nel collezionismo s’intrecciano indissolubilmente con il vissuto dei protagonisti che sono andati alla ricerca, che hanno scoperto dove si trovava quello che cercavano o che hanno trovato per caso un piccolo o grande capolavoro. All’inizio l’obiettivo era soprattutto la “paziente ricomposizione di un tessuto dell’arte ferrarese disgregato ma non dissolto”, come scrive Vittorio in uno dei saggi che animano il bellissimo catalogo pubblicato da La nave di Teseo. Poi la curiosità, il desiderio, il caso hanno incrementato il gusto della caccia portando a allargare la zona di appartenenza degli artisti, da Venezia alla Sardegna, da Faenza alla Romagna, da Milano al Canton Ticino. Se la mostra segue un percorso cronologico che va dal XV secolo al Novecento, l’ordine di tipo storico può essere sovvertito dal visitatore che procede per illuminazioni, per emozioni, per passioni, ricostruendo un mondo di immagini solo sue, che è poi il modo in cui è nata la stessa collezione.

“Per dipingere una figura non bisogna farla: bisogna farne l’atmosfera”, dichiaravano i Futuristi nel loro Manifesto. È quello che ispira Gaetano Previati nel suo “Prima comunione” del 1884. Viste attraverso una nebbia, una teoria di figure velate come fossero avvolte da plastica trasparente, stanno a capo chino, semicancellate dai fumi dell’incenso. Tra loro spicca la sagoma e la tiara di un vescovo, inquietante evocatore di atmosfere malsane. Ugo Martelli è qui rappresentato da “Paesaggio” (1906-10). Due scogli ai lati del quadro potrebbero essere i Faraglioni di Capri o Scilla e Cariddi nel golfo di Messina. La bellezza del dipinto cupo a piccoli tratti di pennello propri del divisionismo, l’accenno delle onde agitate, più chiare, che spiccano sul blu verdastro del cielo, ricordano certi dipinti giapponesi in un’atmosfera però malinconica, meno vitale.

“La marchesa Casati in maschera di Medusa”, un vaso di ceramica del 1920 di Renato Bertelli, è raffigurata sul manifesto della mostra anche per la notorietà della protagonista. Già amante di D’Annunzio e moglie del marchese Casati Stampa di Soncino, Luisa Amman era nota per le sue stravaganze come i servitori che giravano nudi per casa, i pitoni avvolti al collo, i ghepardi al guinzaglio. Gli occhi pesantemente bistrati, la bocca sprezzante sottolineata da un rossetto scuro, il viso androgino, il diadema adorno di vetri tagliati a brillante e la chioma ramata che le avvolge in onde il collo sottolineano la sua appartenenza all’Art Déco. Anche Giovanni Boldini non sfugge al fascino esotico della divina marchesa. Nello schizzo del 1910, “Studi della marchesa Casati con levrieri”, disegnato con matita grossa su carta a quadretti, non rimane quasi nulla del modello che apparirà nel quadro successivo. Ma c’è già tutto il movimento dei cani dalle lunghe, eleganti silhouette e la posa inclinata, fataleggiante della marchesa che si atteggia, seducente, davanti al celebre pittore di una numerosa galleria di “divine” che facevano la fila per essere ritratte da lui.

Nello studio dell’artista sono tratteggiati due uomini nudi. Il più anziano semisdraiato sul pavimento è sorretto dal più giovane che tenta di sollevarlo. “Studio con figura maschile” dalla data incerta tra il 1930 e il 1940 di Filippo de Pisis è probabilmente lo schizzo per un quadro mai realizzato. Ferrarese e aristocratico, il pittore che visse a Roma, Parigi, Milano, Londra, Venezia, fu il cantore delle piccole cose, di nature morte in cui i cibi comuni, le melanzane, i pesci, i pomodori, le melegrane, l’uva, diventano protagonisti importanti come personaggi famosi. I suoi paesaggi sembrano miniaturizzati, spesso abitati da figurine intente ai più svariati lavori. Quello che lo ispira è la vita quotidiana, di una semplicità minimalista al limite della visibilità. Come i suoi amori omosessuali, rapidi e violenti, ma fugaci.

Gli “Arazzi” di Francesco Dal Pozzo del 1920-30, ricamati in lana, seta e cotone, furono confezionati nel laboratorio milanese di Gina Furlanetto Lazzaro, sotto la supervisione del disegnatore. Che dipinse anche affreschi, eseguì mosaici, fu scenografo e costumista. Il primo degli arazzi esposti ricorda l’ esperienza della guerra in Cirenaica che combatté tra il 1917 e il 1919. In colori vivaci, rosso, arancio, verde, marron è raffigurato un uomo di pelle scura che corre portandosi dietro il giorno, una lunga forma che ricorda una sirena con il sole raggiante e tutti i fiori dei prati. Dietro di lui lo stanno raggiungendo la luna e la notte. In un altro dai colori più cupi, si alzano degli alberi dagli esili tronchi bianchi, chioma nera punteggiata di frutta rosse. Sono piantati su colline nere che immergono il frutteto in un’atmosfera lugubre, quasi apocalittica. Il lavoro di Dal Pozzo si ispira all’Art Déco che si sta concludendo. Commovente la figura della madre “Maternità (Salvamento)” modellata in terracotta da Ulderico Fabbri nel 1953. Forse ricorda la grande alluvione del Po di due anni prima. La madre, come un grosso bozzolo, è curva su una figura di bambino che cerca di sollevare sulle braccia. Stranamente le due figure assomigliano più a animali, come se l’artista volesse alludere all’amore materno viscerale, primordiale, che appartiene a tutto il regno degli esseri viventi. Ma le opere descritte sono solo una piccolissima parte di tutte quelle esposte nella mostra, aperta a un’infinità di altri percorsi.

Questa straordinaria esposizione capovolge il pregiudizio nei confronti dei collezionisti gelosi e umbratili che tengono nascosti i loro tesori nei caveau delle banche. Per la generosità della Fondazione Elisabetta Sgarbi che l’ha voluta in omaggio alla madre e al fratello, le opere hanno lasciato la loro sede abituale, la casa di Ro Ferrarese, a cui appartengono assieme a tutte le altre che vi sono rimaste perché troppo numerose per esporle tutte. Mostra e biografia di famiglia sono strettamente connesse. “È essa stessa la casa”, scrive Elisabetta, “in un solo identico respiro. Le opere disposte, o semplicemente posate, appese, adagiate, sono parte della nostra famiglia. Ci parlano e ci guardano crescere da anni, e noi le guardiamo da anni”.