Cultura

Quando gli incubi del «rimosso» riaffiorano

Quando gli incubi del «rimosso» riaffioranoGian Maria Tosatti, «My hart is so leeg soos ’n spieën - Kaapstad episode», 2019, installazione ambientale

Mostre Un'installazione ambientale di Gian Maria Tosatti al Centre d’Art Santa Monica di Barcellona, per la rassegna «The other side» a cura di Ferran Utzet e Enric Puig Punyet, che in una serie di appuntamenti indaga la parte oscura della storia umana

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 28 maggio 2024
Nicolas MartinoBARCELLONA

Al Centre d’Art Santa Monica di Barcellona, fino al 2 giugno, rimane in piedi The other side a cura di Ferran Utzet e Enric Puig Punyet, una serie di mostre dedicate, appunto, all’altra parte, quella oscura, nascosta, inconscia, del nostro mondo. L’intenzione è quella di indagare artisticamente un tema che si inserisce all’interno del dibattito più complessivo sull’esplosione delle nostre certezze dentro un mondo che, fuori di sesto e fuori di sé, lascia affiorare sempre di più gli incubi prodotti dal rimosso che continuiamo a lasciarci alle spalle.

È VERO, insomma, che un mondo nuovo sta emergendo sulle rovine di quello che è stato fino a non molto tempo fa, ma è altrettanto vero che noi ci muoviamo tra le macerie di una storia che non smette di inseguirci come un fantasma. Riuscire a elaborare il lutto, e quindi liberarci dai nostri incubi è senz’altro una sfida politica, e in questo l’arte contemporanea può davvero funzionare come una forma pubblica di terapia collettiva. È questa l’esperienza che si fa salendo al terzo piano ed entrando nell’istallazione ambientale Il mio cuore è vuoto come uno specchio – episodio di Cape Town di Gian Maria Tosatti, artista quarantenne che da tempo si dedica alla costruzione di un grande romanzo visivo della nostra storia e del continente europeo. Un dispositivo esperienziale che funziona come un processo attraverso il quale possiamo attraversare e riconoscere l’orrore che ci costituisce e che, non a caso, in questi anni ha toccato diverse città del continente e del bacino del Mediterraneo. Per Barcellona Tosatti ha deciso di ricostruire un ambiente pensato alcuni fa per la tappa sudafricana del suo progetto: un pianerottolo e un appartamento composto da un corridoio centrale, una camera da letto e un salone.

UN MOBILIO anni Sessanta ci proietta subito in una dimensione straniante, familiare e allo stesso tempo disturbante, come se l’unheimlich di Freud avesse preso forma intorno a noi. Una serie di tracce testimoniamo che qualcuno ha abitato quegli spazi: un televisore acceso e una serie di giornali sui tavoli, bicchieri pieni d’acqua e denti umani appoggiati come soprammobili. Se facciamo attenzione ci accorgiamo però che le immagini trasmesse dalla televisione sono sfocate e che anche i giornali non si riescono a leggere perché le pagine sono come sfumate. Se ci avviciniamo agli specchi non riusciamo a vederci se non in un riflesso molto opaco dei nostri contorni. Benché sia giorno a mancare è la chiarezza della luce.

A MANCARE, dopo qualche minuto, è l’aria che ci permette di respirare e poco a poco un senso di oppressione rende sempre più evidente che l’ambiente nel quale siamo è inabitabile, tanto che verrebbe voglia di scappare, come quando vorremmo svegliarci da un incubo ma non ci riusciamo. Siamo in Sudafrica, negli anni dell’apartheid, uno dei capitoli di quello che possiamo chiamare l’eterno, o meglio «trasversale» fascismo, non tanto o non solo dell’Italia, ma della civiltà europea nel suo complesso. Nella sua narrazione visiva quello che fa Tosatti, in effetti, è indagare gli archetipi di un male che si trova nel dna stesso di un’Europa ossessionata dal principio d’identità e quindi costitutivamente violenta e razzista.

IL FASCISMO NON È SOLO quello storico del ventennio, ma è un modo di essere e di pensare, un’attitudine che germoglia a partire dall’indifferenza che rende possibile che il male si diffonda come un’epidemia. Il male, come ci ha insegnato Hannah Arendt, ha il volto banale e forse anche gentile del nostro vicino, si insinua nell’indolenza con la quale lasciamo che il nostro linguaggio diventi strutturalmente fascista, cresce nella pigrizia con la quale pensiamo che in fin dei conti noi siamo un po’ più uguali degli altri e che far morire in mare qualcuno non è reato.
Il fascismo non è solo nel volto turpe dei dittatori più feroci, ma sta nella microfisica dei nostri gesti quotidiani che costruiscono l’orrore. Se il grido finale del sedicenne Seydou, protagonista di Io capitano di Garrone, commuove, ovvero mette in movimento il mondo nuovo, il silenzio assordante dell’installazione di Tosatti ci costringe a guardare in faccia l’osceno del mondo contemporaneo e quello più nascosto che è in noi.

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