Cultura

Quando “Duccio” incontra “Lee”, sulla carta: la banalizzazione dell’Altro

Quando “Duccio” incontra “Lee”, sulla carta: la banalizzazione dell’Altro

Stereotipi Il libro per l'infanzia che racconta l'amicizia di un bambino italiano e una bambina cinese, quest'ultima rappresentata attraverso una lente intrisa di pregiudizi. Il dibattito nella comunità scolastica

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 4 aprile 2021

Negli ultimi giorni, la pubblicazione di un brano di letteratura per l’infanzia (“Duccio e il mistero della musica telepatica”, di Paola Reggiani, Feltrinelli 2013) all’interno di un libro di letture per la scuola primaria ha acceso un vivo dibattito sia tra gli educatori ed operatori del settore educativo, sia tra gli esponenti della comunità sinoitaliana. In particolare, alcune mamme – e papà – sinodiscendenti hanno segnalato all’editore il proprio rammarico di fronte alla scarsa attenzione nei confronti di chi ha vissuto – e vive – sulla propria pelle  l’esperienza da “immigrato con caratteristiche somatiche diverse da quelle della maggior parte delle persone che lo circondano”, per usare parole di un netizen sinodiscendente.

Va detto che alla fine del racconto, l’ “io” narrante della storia, Duccio, il compagno di classe della bambina in questione, ammira molto questa bambina, quindi va riconosciuto l’intento positivo dell’autrice. Intento positivo che però palesa diverse ingenuità, prima fra tutte il nome della bambina:  è raro e alquanto insolito che un bambino di origine cinese in Italia si chiama Lee, essendo questa una resa grafica di un cognome – o nome – cinese, secondo le regole della scrittura inglese e non italiana.

Ma l’aspetto che più colpisce è che il testo  non solo ironizza sulla pronuncia italiana dei parlanti sinofoni – il noto scambio tra i fonemi r e l, che, avendo rese diverse nelle due lingue, è un evidente marca di distinzione degli apprendenti provenienti da questa area linguistica (“dice ‘glazie’ e ‘plego’), ma apprezza l’atteggiamento ritirato e silenzioso (“ride senza far troppo rumore”) e accomodante di chi viene schernita (“non si offende mai quando la prendiamo in giro”). In un repertorio ricco di stereotipi, non mancano quelli positivi: “È un fenomeno in matematica”.

Il fatto che stia in silenzio e non si arrabbi quando la prendono in giro, cosa che qui viene scherzosamente presentata come un punto di forza, viene individuato dagli insegnanti, dalle famiglie e dai bambini, oggi adulti, come uno degli aspetti problematici della socialità in ambito scolastico, un atteggiamento che può lasciare cicatrici profonde nei bambini,i quali tendono a non palesare certe ferite. Una mamma, docente universitaria in Italia, Ma Xiaomo, in un’intervista raccolta su China-files afferma: “Quello che per alcuni è un semplice scherzo, per altri può essere offensivo”.

Dalle esperienze passate e dalle testimonianze di quei bambini, ora adulti, che quelle situazioni hanno vissuto sulla loro pelle, sappiamo che tali ferite, una volta cresciuti, rischiano di diventare difficili da sanare. Come afferma un’altra netizen di origine cinese: “Non si offende quando la prendiamo in giro, ma poi in terapia nell’età adulta… Le cicatrici più dolorose sono quelle che non si vedono. Io ero ‘Lee’, mi offendevo sempre ma a volte lo nascondevo bene, altre volte meno e spesso sdrammatizzavo per sentirmi accettata”.

Per la maggior parte dei bambini di origine cinese, soprattutto quelli i cui genitori sono molto impegnati nel lavoro e non sono sempre in grado, linguisticamente, di comunicare con gli insegnanti, è difficile avere un dialogo diretto con la scuola e segnalare impressioni, aspettative e proposte.

Il brano in questione ha sicuramente il merito di mettere in luce la presenza troppo spesso silenziosa, dei bambini cinesi delle scuole italiane. Tuttavia, in Italia a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, quando i bambini sinodiscendenti nelle scuole italiane erano relativamente pochi e concentrati in alcune aree geografiche (Milano, Prato, Roma, Bologna, tra le maggiormente interessate dall’immigrazione), si è cominciato, grazie a numerosi studi, osservazioni etnografiche in ambito scolastico ed extrascolastico, a raccogliere dati e produrre indicazioni e suggerimenti su come costruire spazi condivisi di crescita che tenessero conto del nuovo assetto interculturale delle nostre comunità scolastiche.  Si era agli albori di una riflessione sul significato e modalità del contatto tra allievi di origine diversa, un discorso oggi ampiamente sviluppato e riconosciuto a livello nazionale.

Ricordo quando alla fine degli anni Novanta, venni chiamata come mediatrice linguistico-culturale dalla scuola per “sistemare” un bambino arrivato dalla Cina, che, dopo 2 anni di silenzio in cui “rideva senza far rumore” e “ non rispondeva alle provocazioni dei compagni”, stupì tutti mettendo a soqquadro l’aula e spaventando compagni e professori per un inaspettato scatto di ira. Era anche pochissimo appassionato della matematica. Un caso non isolato, un sintomo di una lettura difficile di un inserimento scolastico problematico, in cui il rapporto tra la scuola e la famiglia era tutto da costruire.

L’impressione di chi ha lavorato e continua a lavorare sul campo per le interazioni positive tra persone di diverso background linguistico e culturale, è che questa pubblicazione cancelli trent’anni di ricerca e di indicazioni sull’intercultura, e riproponga schemi ingenui e obsoleti che non rispettano le regole dell’interazione interculturale e del crescere insieme.

Quei bambini entrati nelle scuole in quegli anni, oggi sono cresciuti e hanno conquistato voci autorevoli – molti di loro sono in posizioni di rilievo, sia in aziende di successo, sia in enti di ricerca e formazione di alto livello, tra università e Istituti di alti studi. Tuttavia, quello che in generale ancora manca è l’inserimento nel corpo docente di figure educative “con tratti somatici diversi dalla maggioranza”, di portatori di culture ed esperienze diversificate, che testimonino, anche con la loro stessa diversità somatica, la simmetria di un rapporto tra pari.

C’è da chiedersi: se nella scuola l’insegnante di lettura fosse stato un sinodiscendente con gli occhi a mandorla, o uno di quei mediatori che, pur di origine italiana, funge da ponte tra diverse culture, la casa editrice e la scuola avrebbero proposto lo stesso testo? Di fronte a un insegnante di origine cinese, o testimone dell’Altro come persona e non come oggetto stereotipato, ci si rivolgerebbe al bambino sinodiscendente con il termine “cinesino”?

Come recentemente ha affermato Su Tong, affermato scrittore cinese, conosciuto in Italia grazie a numerose traduzioni di suoi libri: “È necessario che vi sia comunicazione tra una cultura e l’altra. E la comunicazione deve essere paritaria….Bisogna cercare dei punti in comune e non sottolineare le discrepanze culturali con aria di scherno o a fini derisori”.

 

 

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