Quando c’era solo Fassbinder
Maestri del cinema In meno di quindici anni ha lasciato un’impronta indelebile nelle opere e nei destini dei suoi compagni
Maestri del cinema In meno di quindici anni ha lasciato un’impronta indelebile nelle opere e nei destini dei suoi compagni
Cominciamo dalla fine: correva il lontano 1982 quando, il 10 giugno di quell’anno, Rainer Werner Fassbinder moriva a Monaco a causa di un arresto cardiaco dovuto, con grande probabilità, ad un micidiale cocktail di alcool, cocaina e tranquillanti. Aveva soltanto trentasette anni, essendo nato nel 1945 a Bad Wörishofen, un paesino rurale della Baviera. Veniva a mancare, così, la figura più leggendaria e trasgressiva della «Nuova onda» del cinema tedesco degli anni Settanta-Ottanta, quella che comprendeva, tra gli altri, i suoi coetanei Werner Herzog e Wim Wenders oltre a cineasti un po’ più âgée come Volker Schlöndorff, Edgar Reitz o Alexander Kluge. Leggendaria figura si diceva, proprio perché a differenza dei suoi amici-colleghi per fortuna oggi ancora in vita e ancora parzialmente attivi, RWF ci ha lasciato, giovane, nel pieno di un incontenibile impeto creativo e di un’attività frenetica nella quale, tipico segno dei tempi, tra cinema-teatro e vita reale non esisteva iato alcuno.
I film
Qualche nuda cifra per ricordare il suo gigantesco opus: la filmografia conta da sola, oltre a quattro cortometraggi e l’episodio nel film collettivo Germania in autunno (1978), 39 opere di lungometraggio tra cui un serial in cinque puntate, 8 ore non fanno un giorno (1972, che, finalmente, dovrebbe presto uscire anche in Italia per la Ripley’s Home Video) e il mastodontico sceneggiato tv Berlin Alexanderplatz (1980). In più, per il teatro, il suo «secondo amore», aveva scritto dodici pièce (alcune diventate film come il magnifico Le lacrime amare di Petra von Kant, 1972) e realizzato una trentina di messe in scena teatrali, senza contare quattro originali radiofonici e altre minuzie. Il tutto in meno di un quindicennio di lavoro artistico speso appassionatamente, senza un attimo di tregua, a sperimentare insieme al suo collettivo di attori e tecnici – un clan che gestiva da assoluto dittatore – una vita e una attività in moto perpetuo, con i soldi del film precedente che servivano a finanziare di corsa il successivo (grazie anche ad una marea di debiti e di tasse non pagate), e insieme a sfidare, con l’anarchia della fantasia, polemicamente, provocatoriamente, lo spirito piccolo-borghese del capitalismo della Repubblica Federale post-nazista e il perdurante conservatorismo fascistoide della sua nativa Baviera.
Ma sia chiaro, la quantità dei film fatti, la straordinaria velocità di esecuzione e la dimensione abnorme, al limite del patologico, della produzione non basta a giustificare quel posto di assoluto rilievo che gli spetta in un ideale Pantheon della modernità cinematografica della passata era del pre-digitale. L’opera di Fassbinder, infatti, rappresenta una delle vette di un intelligente progetto di modernità che non prescinde anzi si lega strettamente al cinema classico hollywoodiano. Pur incrociando, nelle prime prove, lo stile e i nuovi stereotipi delle Nouvelle vague, ha scelto un percorso originalissimo che, dall’impossibilità accertata di restituire il glamour filmico, lo splendore mitico della classicità, era approdato ad un modello determinato e influenzato dai grandi mutamenti sopravvenuti negli anni Sessanta europei.
E ciò sondando le potenzialità del melodramma, appreso dal suo maestro e amico, il regista tedesco-hollywoodiano Douglas Sirk ma piegato ad una funzione di implacabile critica storico-sociale. Un modello, quindi, che si nutre insieme di uno sguardo attento e polemico sul presente e di una architettura stilistica in parte classica, combinando l’archeologia mitica del passato a nuove immagini in progress.
A quasi quarant’anni dalla sua scomparsa, sembrerebbe, però, che siamo ancora ben lungi dall’aver fatto tesoro del suo lascito, innanzitutto rispetto a quel grandioso progetto di «storiografia popolare» per immagini della propria nazione che resta ad oggi il maggiore, più straordinario merito di RWF.
Genio e sregolatezza
Di lui, in Italia, ne abbiamo quasi perso le tracce: nelle televisioni i suoi film non vengono mai trasmessi, le nuove generazioni di cineasti lo conoscono appena e l’eco dirompente della carica espressiva e trasgressiva (anche sotto l’aspetto sessuale) appare dissolto in una lontana nebbia del tempo. Un po’ meglio è andata in patria dove, posto sul piedistallo del regista di culto, è diventato una statua circonfusa dall’aura dell’artista tutto «genio e sregolatezza» ma così – anche se lo si è certamente studiato a livello critico (molti sono stati i volumi a lui dedicati, anche di suoi ex collaboratori) – si è finito per renderlo un autore innocuo. Inoltre, si sono evidenziati soprattutto gli aspetti più esteriori e personali, quelli più eclatanti e scandalosi della sua vita frenetica e tormentata.
Lo testimoniano, ad esempio due film, fatti a distanza di tempo: Für mich gab’s nur noch Fassbinder («Per me c‘era solo Fassbinder», 2000, per altro visibile su you tube con il titolo Fassbinder’s Women), un documentario realizzato da Rosa von Praunheim l’antesignano del cinema gay in Germania. In verità – e non è un segreto per nessuno – in vita i due non si erano mai molto amati, il che si percepisce abbastanza chiaramente. Pur nel rispetto dovuto, Rosa von Praunheim spinge l’acceleratore, com’è nel suo stile, sul carattere demoniaco e sadomasochista dell’uomo mentre si trascura di parlare della opera o dell’impatto che avuto.
Più di recente, invece, il più giovane Oskar Roehler (classe 1959), che vorrebbe esser l’irriverente castigamatti della propria generazione, ha realizzato un film di fiction tutto sommato discreto ma anche molto parziale: Enfant terrible è una sorta di biopic di RWF che sarebbe dovuta passare nel Concorso del Festival di Cannes 2020, se la manifestazione non fosse stata cancellata a causa del Covid. Ma anche in questo secondo caso, nel ricostruirne la carriera di Fassbinder dagli esordi con l’Anti-Theater nel 1967/68 sino alla morte, l’accento è posto sulla personalità sgradevole e dittatoriale, sui lati oscuri di una persona che ha spinto due suoi amanti al suicidio, omettendo o quasi di cercare di spiegarne l’indubbia maestria artistica.
Venendo al nostro paese, per chi desiderasse oggi farsi un’idea su quello che è stato uno dei massimi registi della seconda metà del secolo breve, oltre ai dvd della robusta filmografia fassbinderiana in gran parte disponibili, potrebbe leggersi la bella monografia di Jürgen Trimborn Un giorno è un anno è una vita. Rainer Werner Fassbinder. La biografia, pubblicata nel 2014 dal Saggiatore.
I fotogrammi
Qualche mese fa, poi, è anche uscito per i tipi della Jaca Book Fassbinder Fotogrammi 1966-1982 a cura di Juliane Lorenz e Lothar Schirmer. Si tratta come spiega il titolo di immagini tratte da tutti (o quasi) i film del nostro autore, dal corto Il piccolo caos del 1967 sino a Querelle de Brest, il suo canto del cigno, presentato postumo dopo la morte alla Biennale di Venezia del 1982. Le immagini sono introdotte da tre testi: la testimonianza (appassionata) del regista americano John Waters, quella brevissima (e totalmente inutile) dello scrittore, premio Oscar, Peter Handke e un buon testo riassuntivo del critico tedesco Hans Helmut Prinzler. Il cuore del libro è però costituito dalla quasi duecento pagine di fotografie-fotogrammi dei film, un vivace album di gesti fassbinderiani e di volti, tra cui quelle della sua «diva» Hanna Schygulla e delle tante altre donne attrici che lo hanno accompagnato negli anni – se mi si domandasse qual è per me la foto preferita e caratteristica, risponderei: quella dove RWF, nel celebre episodio di Germania in autunno, discute al telefono di terrorismo, di repressione politica e pericoli per la democrazia nella Repubblica federale. Spudoratamente nudo come un verme.
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