Quale ordine globale senza spingere il mondo alla rovina
Governi e società In Afghanistan, come altrove, è mancata non la “nazione”, ma un tessuto civile in cui le differenze (etnie, religioni e identità di genere) potessero convivere. Nessun governo può durare a lungo, se non offre una risposta all’esigenza di autogoverno che tiene insieme i diversi segmenti di una popolazione civile
Governi e società In Afghanistan, come altrove, è mancata non la “nazione”, ma un tessuto civile in cui le differenze (etnie, religioni e identità di genere) potessero convivere. Nessun governo può durare a lungo, se non offre una risposta all’esigenza di autogoverno che tiene insieme i diversi segmenti di una popolazione civile
Il ritiro degli Stati uniti e dei loro alleati dall’Afghanistan segna il definitivo tramonto del progetto, avviato con la prima guerra del Golfo, di istituire un “nuovo ordine globale” o, per essere più espliciti, un governo del mondo. Il nuovo ordine pretendeva di reggersi su tre pilastri: l’espansione dei mercati, l’esportazione della democrazia e lo strapotere militare americano, dettagli marginali – di fronte al disastro di Kabul – agli occhi di un’opinione pubblica sempre più decisa a bollare come follia qualunque ipotesi di un governo planetario. A sinistra si riaccende la critica all’imperialismo, a destra si rafforza l’appello alla sovranità nazionale, e le due voci si uniscono nella medesima richiesta: che ognuno se ne resti tra i suoi confini e la sua gente, e si accantonino una volta per tutte le ambizioni globali che ci stanno portando alla rovina.
L’esigenza è comprensibile ma scarsamente realistica. Da decenni lo sviluppo della tecnica ha imposto alle nazioni un grado di interdipendenza del tutto incompatibile con una logica isolazionista: non solo ogni singolo Stato, ma persino ogni attore che ambisca al potere politico in un particolare territorio ha oggi l’interesse e finanche la necessità di incidere sugli equilibri altrui. Le “guerre incivili” degli ultimi decenni insegnano che non c’è attore locale che non sia, al tempo stesso, l’anello di una qualche catena globale, tenuta insieme da un torbido intreccio tra politica ed economia.
I talebani sono un perfetto esempio di questa regola generale. Come combattenti islamisti, aspirano a porsi a capo del jihad, in modo da spingere verso le loro casse disastrate gli ingenti finanziamenti degli stati petroliferi del golfo. Come produttori della quasi totalità dell’oppio che alimenta i mercati legali e illegali, hanno la necessità di rafforzare il proprio ruolo dominante al loro interno. Come nuovi padroni assoluti di un territorio strategicamente decisivo, hanno un ovvio interesse a inserirsi in progetti geopolitici di portata apertamente planetaria, a cominciare dalla Via della Seta. L’interrogativo se debba nascere o meno un ordine globale è dunque fuori tempo massimo. In questione è piuttosto quale ordine, quali attori e quali forme di potere possano davvero governare i processi globali senza spingere il mondo intero alla rovina. Nessun soggetto politico può sperare di sottrarsi a questa questione, meno di tutti i grandi movimenti nati su temi come le disuguaglianze, le migrazioni o la crisi ambientale, nei quali risuona comunque (fosse anche contro voglia) un’esigenza di governo dei processi globali.
In questa prospettiva, l’esperienza americana in Afghanistan ha molto da insegnare su tutto ciò che non andrebbe fatto. Che l’obiettivo americano non sia mai stato “costruire una nazione” ma, più modestamente – come dice Biden per giustificare il ritiro – garantire la sicurezza degli Stati uniti rispetto alla minaccia terroristica di Al Qaida è al massimo una mezza verità. Il radicamento di Al Qaida in Afghanistan aveva già cessato di essere una minaccia seria dopo gli scontri militari a Tora Bora o, al più tardi, dopo l’uccisione di Bin Laden, avvenuta non a caso in territorio pakistano.
Se l’occupazione non è cessata allora, è perché aveva altri obiettivi, strategici ed economici allo stesso tempo. Eppure, nella frase di Biden c’è del vero. Perché, nella neo-lingua della politica globale, il termine “sicurezza” indica esattamente la dimensione torbida che ha guidato l’intervento americano, in cui gli interessi dell’industria bellica e il potere di ricatto dei signori della guerra sono i primi fattori presi in considerazione, mentre l’esigenza di autodeterminazione della società civile vale quanto il due di briscola. La locuzione “nation building” è, a sua volta, del tutto interna al lessico della sicurezza: ne definisce il correlato ideologico, cui si può rinunciare in caso di bisogno.
Ciò che è veramente mancato – in Afghanistan come in decine di altri teatri di guerra – non è la costruzione di una fantomatica “nazione”, ma quella di un tessuto civile in cui le differenze tra nazionalità, etnie, confessioni religiose e identità di genere potessero contribuire alla vita collettiva, senza essere forzosamente spinte verso il conflitto.
Se a una parte consistente degli afgani, persino i talebani, sono sembrati più vicini alla loro esigenza di autodeterminazione di quanto non lo siano stati gli occidentali e i loro alleati, è perché evidentemente a una tale esigenza non si è voluto o saputo dare alcun valore. A muoversi con efficacia su un tale terreno sono state solo le organizzazioni non governative come Emergency o Rawa, proprio perché la loro missione non era costruire un governo, bensì segnarne i limiti, in nome di esigenze incondizionate come la parità dei diritti, la dignità umana o il diritto alla salute.
Può sembrare un paradosso, ma è invece un punto cruciale. Il concetto e le pratiche del governo sono infatti segnate, da sempre, da un’intima ambivalenza. Da un lato, implicano l’esercizio di un potere sulle condotte altrui, per pilotarle e orientarle in una precisa direzione. Dall’altro, esprimono l’esigenza di autogoverno senza la quale non può esistere comunità politica. L’equilibrio tra i due poli è precario da sempre ma, negli ultimi decenni, le tecnocrazie occidentali hanno talmente calcato la mano sulla prima delle due accezioni, da illudersi di poter neutralizzare la seconda. Un’illusione che stanno pagando a caro prezzo, sia all’estero che in casa propria.
Per quanto orribili, gli eventi di Kabul contengono quindi una lezione non del tutto negativa: nessun governo può durare a lungo, se non offre una risposta all’esigenza di autogoverno che tiene insieme i diversi segmenti di una popolazione civile. Resta da chiedersi se esista, al momento, un soggetto politico capace di tradurre in pratica una simile lezione. Pare che Churchill abbia detto, un giorno: “Gli americani faranno di sicuro la cosa giusta, una volta esaurita ogni altra possibilità”. C’è solo da sperare che sia vero anche stavolta.
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