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Quale altro genere di forza?

In una parola

In una parola La rubrica a cura di Alberto Leiss

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 31 agosto 2021

L’esito vergognoso e violento della guerra persa in Afghanistan continua a produrre una sorta di febbrile balbettio su che cosa dovrebbe o potrebbe cambiare per il cosiddetto Occidente, ora che l’Impero appare intenzionato a occuparsi di più dei fatti suoi – lo shock provocato dall’ascesa del trumpismo sembra ancora lontano dall’essere assorbito – probabilmente selezionando meglio le altre aree del mondo dove impiegare influenza e potere militare.

Qui da noi riprende fiato l’idea che i paesi della Ue, o almeno un nucleo più determinato, debbano finalmente dotarsi di una autonoma capacità di difesa (il che sottintende anche di attacco…). Ne ha parlato Mattarella, peraltro giudicando giustamente “sconcertante” che alcuni politici europei siano preoccupati esclusivamente di bloccare l’accoglienza degli Afghani che scappano dall’Emirato talebano.
Anche l’”alto” commissario per le cose estere della Ue Josep Borrell – intervistato dal Corriere della sera – ha affrontato il tema, spingendosi a proporre la costituzione, intanto, di una forza comune armata detta “Initial Entry Force”, in grado di intervenire dove gli interessi europei fossero minacciati “e gli americani non vogliono essere coinvolti”. Non mi è sembrato un intervento “alto” anche perché, incalzato da Federico Fubini, alla fine ammette l’impotenza europea sul problema dei profughi: certamente saranno finanziati i paesi vicini all’Afghanistan “come abbiamo fatto con la Turchia”. Nel solo Pakistan i profughi si contano non da ora a milioni: qui ci si preoccupa delle decine, centinaia, migliaia…

Anche Angelo Panebianco esorta gli europei a occuparsi dei “nemici non visti”, giacchè finora tenuti a bada dagli Usa. Detto in parentesi, in tutti questi interventi ci sono accenni un po’ imbarazzati al ruolo della Nato, che certo non va messa in discussione, ma sembra serpeggiare un sospetto: a che cosa serve davvero?
L’editorialista del Corriere è però preoccupato degli intralci che opporranno alla difesa comune i “perfezionisti democratici”. Personaggi che, nel momento di disporsi alla battaglia, non vorranno sentir parlare di “Ragion di Stato” o di “Realpolitik”, e insomma resteranno troppo attaccati all’idea che una democrazia non dovrebbe tradire, nemmeno in guerra, i propri principi democratici.

Nel mio piccolo simpatizzo per questi guastafeste. Anzi mi spingo oltre. La vicenda afgana, con il corteo di conflitti distruttivi dell’ultimo ventennio, dovrebbe indurre tutti e tutte a un ripensamento radicale sul senso profondo della guerra e dell’uso della forza. Non credo basti dire, come il pacifismo che pure ha una gloriosa tradizione, no alla guerra. O meglio: andrebbe pensata e praticata una idea di forza – per esempio quando è giusto reagire alla violenza prevaricatrice di qualcuno – capace da evitare gli esiti della guerra così come è combattuta oggi.

Proprio il Corriere della sera, con la “27a ora” dedica nei prossimo giorni l’incontro annuale sul “tempo delle donne” al tema “Un altro genere di forza”. Dove la parola genere richiama la radice anche sessuata della forza. È il titolo di un libro di Alessandra Chiricosta (Jacobelli, 2019), femminista che conosce bene le culture orientali e la filosofia delle arti marziali. Ora che le donne vanno dappertutto, compresi gli eserciti, può essere meno arduo cambiare i modi del conflitto? Tendendo a superarne gli esiti mortiferi, dalle relazioni personali a quelle sociali e internazionali?
Anche Alex Langer aveva pensato molto su come sostenere la pace senza rinunciare a difendere chi è ingiustamente aggredito. Un tema che dovrebbe interessare tutti i democratici, anche non perfezionisti.

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