ExtraTerrestre

Pusterla, poesia è paesaggio

Intervista Intervista con il poeta e traduttore ticinese al quale è stato assegnato il premio Ghianda 2019. «Il tempo storico non è l’unico nel qual e viviamo. Ne esiste anche un altro geologico, biologico, che dà speranza»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 6 giugno 2019

Il Festival Internazionale Cinemambiente assegna il Premio Ghianda 2019 al poeta e traduttore ticinese Fabio Pusterla. Il premio Ghianda nasce dalla volontà di costruire una biblioteca di voci e di opere che testimonino l’impegno di quegli scrittori che abbiano intrapreso, con tenacia e favore, un percorso di vita e scrittura legato a temi di carattere ambientale, paesaggistico e/o naturalistico.

Fabio Pusterla è una delle voci più apprezzate della poesia contemporanea di lingua italiana, attivo non soltanto in qualità di poeta ma anche di traduttore, attività per la quale ha ricevuto importanti riconoscimenti, nonché nella valorizzazione della cultura, come testimoniano la collaborazione con il festival Chiasso Letteratura e la direzione della collana Le Ali per l’editore milanese Marcos Y Marcos. La poesia di Pusterla è un inno alla scoperta di ogni minima traccia del paesaggio, laddove la storia naturale incrocia la storia delle attività e dell’abitare umano, in quella regione dei laghi che si sospende fra Lombardia e Canton Ticino, o come suggerisce il critico Roberto Galaverni, «calata in questo bacino di acque spazzate dal vento, di foreste e di ghiacci». Opere quali Concessione all’inverno, Bocksten, Le cose senza storia, Folla sommersa, Corpo stellare, Cenere, o terra, o l’antologia einaudiana Le terre emerse imbastiscono i capitoli di una riflessione che traccia la fine del mondo attuale e prefigura gli scenari, placidi, naturali, selvatici, di un nuovo pianeta che ci attende, rinascita di una antichità a suo modo eterna e ciclica.

Fabio Pusterla, poeta delle «cose senza storia»: cos’è per lei la realtà? Che cosa le fa decidere di prestare attenzione ad un dettaglio, ad un soggetto, come nascono insomma le sue poesie?

Inizialmente, tanti anni fa, non avrei saputo rispondere a questa domanda, e mi sarei barricato dietro qualche discorso fumoso. Adesso credo di aver capito che a colpirmi, delle realtà che incontro, sono soprattutto due cose: la marginalità degli oggetti, cioè il loro apparire quasi casualmente ai margini del quadro d’assieme, mai al centro; e le connessioni impreviste che si possono stabilire fra di loro. Voglio dire che una cosa (un’immagine reale, un ricordo, una pagina, un volto) mi colpisce davvero solo nel momento in cui stabilisce per vie segrete una relazione a cui non potevo pensare con una seconda cosa, apparentemente molto distante. È un meccanismo che non decido e che non posso neppure propiziare più di tanto; ma quando avviene, porta spesso con sé il desiderio di provare a scrivere. Avevo incontrato qualcosa di simile in una celebre dichiarazione di un poeta che ho molto amato da giovane, Dylan Thomas; e forse, a modo mio, ho provato a seguire una pista non troppo distante dalla sua. Ma già Leopardi parlava delle «somiglianze fra le cose» che la poesia ha il potere di individuare. In questo senso, la poesia mi appare come un linguaggio di profondità, capace di rivelare qualche aspetto dell’esistente e dell’essere di cui non avevamo coscienza. Non sono certo il primo a dire cose del genere; ma se «l’essere» è inevitabilmente il terreno da cui può germinare l’esigenza di scrittura, e a cui la scrittura può sperare di tornare dopo un viaggio arrischiato, «l’esistente», ossia ciò che esiste al di fuori di me, attorno a me, è forse il territorio che mi interessa maggiormente esplorare. La realtà, di cui la domanda mi chiede, mi appare come intensificata dalla parola poetica; per scrivere ho forse dovuto prendere le distanze da quella realtà; ma, quando la scrittura è davvero nata, dalla parola una sorta di luce vivificante irradia su quella realtà, e su me che la guardo, e tutto appare più vivo e più vero. Questo accade raramente, non c’è bisogno di dirlo; ma accade.

Leggendo le sue raccolte prime, Concessione all’inverno, Bocksten, quanto l’ultima, Cenere, o terra, si percepisce chiaramente una stratificazione geologica, ci sono molte tracce di una cronologia storica che si ripete, ciclicamente. Come se tutto quel che accade fosse transitorio ma destinato a ripetersi, in un futuro che assomiglia parecchio ad una fra le diverse antichità. Ci può spiegare la sua visione storica?

Sempre più mi appare chiaramente che il tempo della storia, cioè il tempo in cui viviamo, come si suol dire, non è l’unico tempo del mondo; e che tener presente l’altra dimensione temporale, quella geologica e biologica, ci aiuta a comprendere meglio molte cose, e forse anche a tener viva, quando il tempo storico sembra farsi più cupo, un po’ di speranza. Da qualche tempo, del resto, molti studiosi stanno sostenendo l’idea del cosiddetto antropocene, cioè di una nuova era dentro la quale ci stiamo muovendo. A me sembra un’idea affascinante e molto condivisibile. Sicché a me pare di avvertire contemporaneamente la presenza di questi due nastri temporali; il tempo storico è il tempo della cultura politica, dell’azione e della preoccupazione; l’altro tempo si apre come una vertigine, insieme terrificante e rassicurante. O come un’avventura. Nell’ultimo e più estremo suo libro, Edmond Jabès ha inserito un’immagine notevole e misteriosa: «La parola è socievole, la lettera è selvaggia». Sto da tempo riflettendo su questo passo, che mi sembra stupendo; e in questa miscela di socievolezza e selvatichezza mi sembra di ritrovare, nel nucleo profondo della parola poetica, appunto la duplice realtà di cui parlavo prima. E forse appunto la parola, come le rocce che conformano il paesaggio o gli strati sotterranei della crosta terrestre, o i fondali marini, è un luogo capace di conservare le tracce di questa duplicità; come se il linguaggio conservasse misteriosamente in sé anche una memoria di ciò che lo precede, di ciò che la memoria storica non può ricordare, di ciò che si agita a volte in noi come risalendo da epoche lontanissime. Insomma, la natura e la storia ci sono madre, in ogni caso. Anche se siamo incasellati, immersi nelle nostre dipendenze digitali… Recentemente due carissimi amici mi hanno parlato di un sito in provincia di Caserta che non ho ancora visitato, dove si conservano, su di un antico terreno lavico, le «ciampate del diavolo», cioè una serie di impronte preistoriche, lasciate forse 350.000 anni fa da alcuni ominidi che passavano di lì. Nella mia immaginazione, quelle impronte si alleano subito con la ginestra di Leopardi e con molte altre manifestazioni di questo tipo, da cui sento di essere intensamente attratto e commosso. Tutto questo non significa affatto, per me, una fuga dal tempo storico, in cui provo ad abitare, anche faticosamente; significa invece accentuare lo spessore della realtà, vederne meglio la complessa tessitura. C`è un’immagine di un film famoso, Il Gladiatore, che mi ha sempre toccato: nelle scene iniziali, e poi sempre nel corso della vicenda, il protagonista prima di affrontare una battaglia si china al suolo e raccoglie nella mano un po’ di terra, che sembra saggiare, accarezzare e soppesare. La terra nella mano; il peso, l’odore, la densità di quella terra: cose che abbiamo sperimentato anche noi, fosse pure soltanto in un gioco infantile. E in quel palmo di terra scorre, su due piani diversi, il tempo, come scorre anche nella parola di cui assaporiamo il timbro, il suono, il ritmo, la stratificazione; e in cui forse possiamo credere di udire in lontananza, come una vibrazione di fondo, i versi di quegli ominidi in cammino, i loro grugniti, o chissà, il loro modo di dirsi qualcosa.

Lei è anche impegnato nella valorizzazione della poesia contemporanea, mi riferisco al suo artigianato da traduttore, ma anche alle iniziative culturali che promuove, nonché alla direzione della collana Le Ali per Marcos y Marcos. Cosa accende la sua curiosità? Quando si trova di fronte le pagine di un poeta che deve valutare, cosa segna la differenza, fra quel che la interessa e il resto?

Non è facile rispondere in breve a questa domanda. Ma in fondo, cioè che dicevo prima circa il mio rapporto con la realtà forse vale anche in questo caso. Leggo, sforzandomi di dimenticare per quanto possibile i miei gusti e le mie abitudini, un dattiloscritto, spesso di uno sconosciuto. Mi colpisce ciò che non mi aspettavo, ciò che mi spiazza, ciò che non sapevo. Anche: ciò che, girata l’ultima pagina, mi ricordo di aver letto (un’immagine, un verso, un’associazione). Se non mi ricordo nulla, se quello che ho letto era gradevole ma tutto sommato identico a tante altre cose che avevo letto in precedenza, allora tendo a essere poco interessato. Forse posso aggiungere ancora questo: leggere i dattiloscritti altrui è faticoso, come è ovvio che sia. Ma è anche un atto di speranza e di fiducia che abbiamo ereditato dai maestri che ci hanno preceduto e sostenuto.

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