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Purtroppo Andy Capp ha scelto di rintanarsi nel fascismo

Purtroppo Andy Capp ha scelto di rintanarsi nel fascismoUn’opera di Antony Gormley

Dibattito Una replica alle amichevoli critiche mosse da Benedetto Vecchi alle tesi di «Turbopopulismo». Di fronte alla sfida della destra estrema qualsiasi forma di resistenza, fosse anche solo quella morale, è necessaria

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 29 dicembre 2019

Nella sua ampia e ragionata recensione a Turbopopulismo – scritto in dialogo con Luca Telese – Benedetto Vecchi ci muove due amichevoli critiche che meritano un approfondimento.

La prima riguarda la parte in cui Luca ed io compiamo una sorta di «discesa agli inferi del populismo reale», nelle periferie fibrillanti in cui il rancore del forgotten man si condensa nelle peggiori passioni tristi. E in cui Benedetto ha visto una sorta di «accondiscendenza verso le narrazioni mainstream», sia che si raccontino i quartieri «schiumanti rabbia» della periferia romana visitati da Luca o le ghost town delle Midlands inglesi evocate da me. Soprattutto in questo secondo caso l’errore consisterebbe nell’aver in qualche modo assecondato la lettura del «voto inglese come una cristallizzata polarizzazione tra vecchia classe operaia e millennials fighetti sedotti dagli algoritmi degli smartphone».

Mi spiace se questa è l’impressione che può produrre la lettura. Ma la nostra intenzione era esattamente l’opposto: uscire dalla falsa contrapposizione tra old working class avvinghiata al Leave sovranista e millennials schierati sul Remain neoliberista, per presentare piuttosto lo scenario di una devastante dissoluzione trasversale, che ha attraversato come uno tsunami i due comparti della composizione produttiva, anagrafica e demografica. E li ha lasciati entrambi privi di identità sociale e di energia politica autonoma: consegnati, su ambedue i campi, ai propri rispettivi nemici. Ha ragione Vecchi a ricordare che la composizione della Global London dove ha prevalso il Remain è complessa, che dentro non ci sono solo futuri wolf of Wall Street, o «fighetti» affluenti (non l’abbiamo mai pensato), ma «riders, precari, proletariato metropolitano della gig economy» non certo allineati con i dogmi del finanz-capitalismo. Ed è vero che in alcuni (pochi) distretti dell’estremo nordest gli Andy Capp locali hanno abbandonato il Labour non per darsi al liberista autoritario Johnson ma per lo Scottish National Party della welfarista Sturgeon. E tuttavia temo che tutto questo non basti a giustificare una sorta di «ottimismo dialettico» che vuole comunque vedere anche nel peggior populismo le tracce di una possibile vis trasformatrice (lo «scenario in movimento» di cui parla Benedetto).

Tutto sommato mi convince di più, purtroppo, la desolata constatazione di un taglientissimo commentatore del voto inglese quando scrive (nel sito de «I Diavoli») che «i nuovi Andy Capp, adesso, odiano solamente gli altri Andy Capp», e aggiunge provocatoriamente che «tra la speranza di costruire il socialismo e la comodità di rintanarsi nel fascismo, Andy Capp ha scelto la seconda». Anche perché ho l’impressione che il voto ex Labour al National party scozzese, più che al suo programma «social-democratico» guardasse alla promessa identitaria di quel nazionalismo regionale, esattamente come il voto dei loro antichi compagni del resto dell’England, dissolta la consolidata identità «di classe», sia andato a chi gli prometteva una nuova identità prêt-à-porter tirata fuori dall’armadio degli stinti miti imperiali.

E quanto ai millennials, ho il timore che il loro fondatissimo antagonismo sociale non abbia la massa critica sufficiente per produrre l’energia politica necessaria a rovesciare il quadro del dominio di un capitalismo bifronte, globalista e sovranista insieme.

Allo stesso modo per quanto riguarda la seconda critica: l’aver offerto una lettura «moralistica» della trasformazione della sinistra (soprattutto italiana) presentandola come un «agglomerato politico di un ceto medio affluente risparmiato dallo tsunami della globalizzazione». Non ho nulla contro il «moralismo». E non mi sentirei offeso dall’esser definito «moralista». Ma credo che nella descrizione della deriva che ha rovesciato di 180 gradi la natura sociale della sinistra ci sia più materialismo che moralismo. Dire che l’alluvione che dalla Bolognina in poi ha travolto l’insediamento sociale del vecchio Pci lasciando impigliati nelle macerie di quel partito e di quella storia (Pds, Ds, Pd…) solo i brandelli sociali più performanti, quelli che sono effettivamente o credono di essere i winners della globalizzazione, significa semplicemente descrivere un fatto. Altra cosa è interrogarsi su quella massa liquida di elettori che usciti dai grandi contenitori del passato sono approdati all’«ordine del discorso» populista attuale.

Beh, per essere esplicito, credo che non ci sia nulla di socialmente «innovativo» (seppur politicamente regressivo) nella loro gestione. Steve Bannon ha detto di recente che «se vogliamo che il capitalismo sopravviva dobbiamo trasformare le persone in capitalisti». La struttura psicologica di quel grande bacino che sostiene la Lega di Salvini e l’intera destra sovranista ci dice che quel programma è già in buona misura compiuto. Quegli elettori hanno, certo, i piedi affondati nello sterco del capitalismo contemporaneo, ma la testa totalmente dentro la sua narrazione ideologica. Producono valore nello stesso tempo in cui ne percepiscono una, sia pur minore, parte attraverso i fondi pensione finanziarizzati, i magri risparmi investiti, le dilazioni sulle carte revolving… È per loro (esattamente come per tutti quelli che comandano davvero) più facile accettare la possibilità della fine del mondo che quella della fine del capitalismo.

Per questo, nella forma attuale assunta dal populismo, non c’è più nulla di ambivalente. Non è più il radicalismo trasgressivo del grillismo delle origini, ancora oscillante tra destra e sinistra. O quello tematizzato da Laclau. È ormai, compiutamente, una delle tante forme con cui la destra estrema usa le masse per privarle di ogni possibile autonomia. Per questo qualsiasi forma di resistenza, fosse anche solo quella morale, alla loro avanzata non è solo benvenuta. È necessaria.

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