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«Pure li pisce ce fanno ll’ammore»

Divano Osserviamo i pesci dipinti da Giuseppe Recco (1634-1695) raffigurati in una delle pitture di natura morta per le quali andò celebre, reputato, se non il primo, tra i primi pittori […]

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 18 ottobre 2019

Osserviamo i pesci dipinti da Giuseppe Recco (1634-1695) raffigurati in una delle pitture di natura morta per le quali andò celebre, reputato, se non il primo, tra i primi pittori a Napoli nel secondo Seicento. “Pittore singolarissimo di fiori, frutti, cose dolci, pesci, cacciagione, verdume, e altro” lo designa, a metà del Settecento, Bernardo De Dominici nelle Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani. Poniamoci innanzi alla tela della Collezione D’Avalos, conservata nel Museo di Capodimonte. In virtù della meticolosa perizia di Recco nel restituirne squama squama i caratteri, riconosci, uno per uno, il sarago, l’occhiata e la riccióla, l’aguglia, il pagello e il calamaro. Ma non come avviene nella immobile precisione delle tavole naturalistiche, si dica, di Jacopo Ligozzi. Recco non illustra. Qui ti pone innanzi l’intero pescato d’una fortunata notte a mare, riversato in mucchio dalle reti gonfie sulle tavole del pontile.

Hai l’esibizione della quantità che nelle figure della retorica induce all’elenco, all’enumerazione secondo il principio dell’ ‘accumulo’, appunto. Tale è la retorica o, vuoi, la poetica alla quale Recco si attiene nella sua composizione. Una pesca ricca, un trionfo per l’occhio e un senso di dovizia. La sua maestria sta nel restituire come si rifranga la luce nelle scaglie dell’orata, come batta sulle pinne di peltro del pesce spada, come si cali nelle screziature tra i rossi e i viola della triglia. E non morti quei pesci ti appaiono, ma celebrati per vivi, come fossero ancora tra le onde del mare a nuotare veloci, a guizzare o, lenti, in ampi giri, a indagare le sabbie dei fondali per risalire, poi, lungo le prode coperte di mobili alghe e di coralli. E, sul filo delle correnti, in quel loro muoversi perpetuo, a intrecciare i loro amori.

Gli amori dei pesci? sì, se stiamo a Giovan Battista Marino che in un sonetto raccolto ne La Lira (1608), lamentando l’indifferenza con la quale la “perfida Lilla” accoglie i suoi appassionati sospiri, le narra, per addolcirla, di alcuni amori di pesci: “Oggi, là dove il destro fianco ad Ischia/rode il Tirren col suo continuo picchio,/vidi conca con conca e nicchio e nicchio/baciarsi, e come a l’un l’altro si mischia (…) E vidi ancor d’amor l’algente anguilla/arder fra l’acque; e gir di grotta in grotta,/i lor maschi seguendo, occhiate e salpe”. Del resto, di pesci innamorati, è a ciascuno di noi capitato di dire, almeno quando alle labbra ci affiorano quei versi di Salvatore Di Giacomo, intonati alla melodia della celebre serenata di Francesco Paolo Tosti: “Quanno sponta la luna a Marechiaro/pure li pisce ce fanno ll’ammore”. E quanto, di passioni e gelosie, in amore vige tra gli umani, altrettanto per i pesci vale, come impariamo quando ci si abbandona al ritmo dell’antica tarantella che per le vie di Napoli, già nel Settecento, raccontava la storia del Guarracino. “Lo guarracino che jeva pe’ mmare/le venne voglia de se nzorare (…) gerava da ccà e da llà/la nnamorata pe’ se trovà. (il guarracino che andava per mare ebbe voglia di sposarsi, girava di qua e di là per trovarsi l’innamorata).

E quando incontra la Sardella che per lui “speruto nnammoratiello” lascia “l’Alletterato/primmo e antico nnammorato”, si scatena nelle acque del Golfo tale una baruffa che cresce inarrestabile e si fa guerra generale. Tutti coinvolge i pesci che armati accorrono, divisi in opposte schiere: “A meliune correvano a strisce/de sto partito e de chillo li pisce. Sàrache, dientece ed achiate,/scurme, tunne e alletterate (…) Pisce palumme e piscatrice,/scuorfene, cernie e alice/mucchie, ricciòle, musdee e mazzune,/stelle, aluzze e storiune/merluzze, ruòngole e murene (…) capitune, aùglie e arenghe,/ciefere, cuocce, tràccene e tenghe (…)”. “Alla sola indicazione dei nomi”, ha scritto Domenico Rea, hai “un epico elenco di guerrieri arditi e nobili, degni di una guerra di Troia”. L’antica figura dell’elenco (in cui risuona dall’etimo greco il significato di indicare, di mostrare), nel testo dell’anonima tarantella come nel quadro di Recco, fa della congerie una lista, del cumulo un registro, del coacervo un indice. Così, grazie all’amore del Guarracino e della Sardella contrastato dall’Alletterato, Napoli conosce i nomi di tutti pesci del Golfo.

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