Sono rare le trasmigrazioni da cinema a tv, e viceversa, che funzionano. Esperimenti riusciti come M*A*S*H, Buffy the Vampire Slayer o Gli intoccabili, alcuni degli adattamenti da Saturday Night Live… e il più recente Psycho, si contano sulla punta delle dita –perché di solito si finisce con dei bidoni, come Sex and the City o 21 Jump Street. L’ultimo di questi tentativi di rilanciare un film o una serie tv cambiando tipo di schermo è Fargo, una produzione della rete cavo FX (in Italia la vedremo probabilmente su Sky…), creata da Noah Hawley e, almeno nominalmente (hanno credit di produttori esecutivi), benedetta da Joel e Ethan Coen che, grazie all’omonimo film del 1996, vinsero i loro primi Oscar (per la sceneggiatura e, a Frances McDormand, per la miglior attrice protagonista).

Ambientato nelle pianure ghiacciate del nativo Minnesota, Fargo è tutt’oggi uno dei film più «personali» dei Coen, uno di quelli dal feel più caldo, meno distaccato nei confronti dei personaggi (questo anche grazie alla presenza affettiva di McDormand, nei panni del capo della polizia Marge Gunderson). Nel suo adattamento molto libero, Hawley spegne pressoché completamente quella fiammella di calore: il suo Fargo è pulp post-postmoderno – intelligente, spietato e ancor più compiaciuto di se stesso di quanto il cinema dei Coen tenda naturalmente ad essere. L’attacco del pilota della serie (a una prima stagione di dieci episodi, ne seguirà già confermata una seconda) è prevedibilmente l’immagine di una landa ghiacciata, piattissima, sfondo di un Midwest frigorifero che, sul piccolo schermo, e sulle due coste Usa, a partire dai nomi scandinavi, risulta esotico come il paesino dell’Alaska nelle defunte Northern Exposure (cinque stagioni dal 1990 al 1995) o la Twin Peaks immaginata da David Lynch.

Hawley accentua quel dato folk, altro, già presente nel film dei Coen e la sua serie ha i momenti migliori quando sembra ambientata in un altro pianeta, i personaggi che la attraversano come in una trance. La trama è sfrangiata, piena di ellissi, tra un dialogo deadpan, o un omicidio, e l’altro. Hawley, che è autore di quasi tutti gli episodi, punta tantissimo sugli effetti atmosferici: i bianchi e i neon stranianti, le musiche elettro-suggestive, gli sguardi di personaggi con gli occhi di animali presi in trappola. La storia non riprende quella del film ma ne estrae degli spunti – a partire dalla figura centrale di un poliziotto donna. Diversamente da Marge Gunderson, però, Molly Solverson (Allison Tollman) è solo il vice di un vicecapo di polizia, che non le dà retta, anzi scoraggia il suo istinto per la caccia al crimine. Tenace e paziente, Molly sta indagando una serie di morti che potrebbero essere legate tra di loro o no. La aiuta un giovane poliziotto serio come lei (Colin Hanks).

Ispirati ai personaggi di Peter Stormare e Steve Buscemi nel film originale, Adam Goldberg e Russell Harvard sono due killer a pagamento, Mr. Numbers e Mr. Wrench. Dato che uno di loro è sordomuto, comunicano a segni, il che fa sì che ogni tanto sembrino un duo comico. Invece William H. Macy, qui Martin Freeman (Hobbit) è il patetico, topesco, rappresentante di assicurazioni, vessato dalla moglie bisbetica, e con un sanguinoso segreto da nascondere.

Fargo ha anche un diavolo, un mostro implacabile nella vena dell’Anton Chigurh di Non è un paese per vecchi o del Goldwaite Higginson Dorr di Ladykillers, interpretato da Billy Bob Thornton, che porta il nome di Lorne Malvo e attraversa ogni episodio con una solennità un po’ bergmaniana e un sorriso sardonico sul volto. Quasi unanimemente apprezzata dalla critica USA, la serie di Hawley non è in realtà il primo spin-off di Fargo. Un primo pilota era stato già girato nel 1997, su regia dell’attrice Kathy Bates e con Carmela Soprano/Edie Falco nella parte di Marge.