Pubblico e privato tra norma e domanda di senso
Diritto e psicoanalisi Il diritto condivide con la psicoanalisi e con la religione anche altro, e cioè il proprio limite: paradossalmente, la propria inadeguatezza rispetto alle istanze che gli vengono rivolte, la propria inattitudine a promettere quella salvezza che gli viene chiesto invece di fornire
Diritto e psicoanalisi Il diritto condivide con la psicoanalisi e con la religione anche altro, e cioè il proprio limite: paradossalmente, la propria inadeguatezza rispetto alle istanze che gli vengono rivolte, la propria inattitudine a promettere quella salvezza che gli viene chiesto invece di fornire
Quello dei rapporti fra diritto e psicoanalisi è un territorio ancora quasi inesplorato. Quantomeno in Italia, perché forse lo è di meno in altri Paesi del mondo: di recente, ad esempio, in Argentina e in Brasile sono stati pubblicati studi sulle implicazioni psicologiche nelle decisioni giudiziarie in relazione al pensiero di Jacques Lacan.
Eppure, diritto e psicoanalisi hanno molto in comune. Di più: probabilmente non sarebbeesagerato dire che condividono perfino il medesimo statuto, una medesima postura, se è vero che – come sottolinea Massimo Recalcati nel suo “Il grido di Giobbe” (Einaudi) – la cifra caratterizzante di ogni esperienza analitica è rappresentata da una domanda di soccorso rivolta dal paziente all’analista.
La domanda che ogni paziente rivolge al suo analista può essere interpretata, non meno del grido di Giobbe davanti alle vessazioni che Dio gli infligge, come una domanda di senso; così come, ancora più in generale, è questo che ogni esistenza reclama per sé stessa, anche al di fuori del discorso psicoanalitico o religioso – un senso, appunto, che dia ragione della vita in tutte le sue espressioni, in tutte le sue contraddizioni, soprattutto in quelle più laceranti e dolorose. E cos’altro fa il diritto, nella sua essenza profonda, a sua volta, se non ricevere domande di senso e provare a darvi una risposta? Se non essere chiamato a dare un ordine alla vita nel suo infinito dispiegarsi, al reale in tutte le sue manifestazioni?
È proprio da questo punto di vista allora che il diritto condivide con la psicoanalisi, e con la religione, un medesimo statuto: perché anche il diritto rappresenta un’Alterità, come la rappresentano la religione o l’analisi, alla quale chiediamo una promessa di salvezza. Ciò che vorremmo dalla parola della Legge, come lo vorremmo dalle parole dell’analista o della Legge di Dio, è in fondo una stessa cosa: una protezione dal disordine dell’esistenza, dal quale inevitabilmente scaturisce anche il male, anche il dolore. Estremizzando, potremmo dire che la differenza fra una parola e le altre riguarda alla fine solo la dimensione dentro cui ciascuna risulta inscritta: una dimensione pubblica, la parola della Legge; una dimensione privata, personale, intima, quella della psicoanalisi e della religione.
Ma non solo. Il diritto condivide con la psicoanalisi e con la religione anche altro, e cioè il proprio limite: paradossalmente, la propria inadeguatezza rispetto alle istanze che gli vengono rivolte, la propria inattitudine a promettere quella salvezza che gli viene chiesto invece di fornire. La verità è che, qualunque sia la dimensione dell’Alterità alla quale ci rivolgiamo, nessuna risposta potrà mai soddisfare le aspettative da cui proviene: nessuna parola potrà mai proteggerci dall’insensatezza, dal disordine, dal male, dal dolore; nessuna Legge potrà mai contenere l’esorbitanza della vita, da cui avanzerà sempre un resto. Ed è questo, non a caso, l’insegnamento che possiamo trarre dallo stesso libro di Giobbe: il male che Dio gli infligge, e cui Giobbe resiste incrollabile nella propria fede, non ha altro senso se non per assurdo proprio quello di non averne uno. Come a dire: ogni vita contiene necessariamente un vuoto di senso, ma riempirlo non spetta ad altri che a noi stessi.
Nonostante tutto questo, non riusciamo a tenere a freno le nostre incessanti richieste alla Legge, alla quale chiediamo di intervenire continuamente su tutto: come se tutto dovesse e potesse essere sempre disciplinato, regolamentato, ordinato. E forse anche questa è una pulsione che può essere spiegata grazie alla psicoanalisi: e più in particolare alla luce di quel tratto narcisistico al quale Vittorio Lingiardi ha dedicato il suo ultimo libro, “Arcipelago N – Variazioni sul narcisismo” (Einaudi), riconoscendovi un elemento caratterizzante del nostro tempo. Narcisista, ci spiega Lingiardi, è anche chi pretende di veder accolta ogni propria istanza come se fosse assolutamente giusta, chi pensa che il proprio Io coincida con l’Io di tutti, chi nega la complessità del mondo semplificandolo a misura del proprio sé.
Ed ecco, anche il fatto che il dettato della Legge sia sempre più onnipresente, in ogni ambito delle nostre vite, può essere letto come il frutto di istanze narcisistiche: quale risultato della pretesa, per quanto mascherata o inconfessata, di trovare sempre una norma che faccia al nostro caso, che assecondi le nostre esigenze del momento. Ma questo significa svilirlo, il diritto, o peggio: manipolarlo, disconoscerlo, tradirlo. Le norme, per loro natura, nascono dal confronto, dalla mediazione; e d’altronde nessuna Legge che si imponga come un Assoluto potrà mai veramente ambire all’ascolto, e dunque a durare a lungo.
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