«Psiche» si interroga sull’intreccio inestricabile del naufragio
Riviste Sull'ultimo numero della rivista della Società Psicoanalitica Italiana, artisti, fotografi e scrittori riflettono sul rapporto tra chi osserva da terra e chi è in mare
Riviste Sull'ultimo numero della rivista della Società Psicoanalitica Italiana, artisti, fotografi e scrittori riflettono sul rapporto tra chi osserva da terra e chi è in mare
Assistere da terra al disagio di chi si barcamena in mare può essere piacevole, sosteneva Lucrezio in un celebre passo del suo poema sulla natura. E ciò non perché godiamo della sofferenza altrui, continuava Lucrezio, bensì perché in questa situazione abbiamo l’occasione di apprezzare ciò che normalmente appare scontato: la sicurezza di avere i piedi a terra.
NONOSTANTE le giustificazioni di Lucrezio, sembra però rimanere una certa ambiguità sul piacere di chi osserva gli sfortunati al largo. Anche a causa del persistere di tale ambiguità, i suoi versi sul naufragio hanno stimolato interpretazioni e riscritture le più varie. Vi si sono esercitati tra gli altri Montaigne, Pascal, Sartre. Segno questo, che la scena dipinta da Lucrezio ritorna toccando profondità tuttora sensibili, come ci dimostra la quotidiana offerta di immagini di imbarcazioni con naviganti da salvare o lasciare al loro destino.
Anche sulla scorta di quanto sta accadendo nel Mediterraneo, l’ultimo numero della rivista Psiche, diretta da Maurizio Balsamo, ha scelto di trattare gli argomenti evocati dai versi di Lucrezio, prendendo spunto dal titolo del libro di Hans Blumemberg, Naufragio con spettatore. I contributi che questo numero della rivista della Società Psicoanalitica Italiana ospita provengono da diverse discipline. Non mancano interventi di artisti, fotografi, scrittori – tra questi ultimi anche Edoardo Albinati. I saggi, gli interventi, i dialoghi, i percorsi iconografici, le schede di lettura vertono soprattutto sull’intricato rapporto tra le due parti coinvolte nella scena del naufragio e sull’impossibilità di separare nettamente i loro ruoli. I naviganti che vorrebbero mettersi in salvo e chi ha il potere di decidere di respingerli o accoglierli. A quest’ultimo gruppo appartengono anche quelli che della scena sono spettatori, benché di una platea mediatica più vasta rispetto a quella evocata da Lucrezio.
Può darsi che quello che definiamo spettatore sia stato un tempo un navigante in pericolo, o sia tutt’ora a barcamenarsi nel mare procelloso della precarietà economica che ha inondato le nostre società – non a caso sempre più desiderose di quella sicurezza che le faccia sentire salde all’asciutto.
GLI ARTICOLI di questo numero di Psiche mostrano come i rapporti tra ciò che è reale e politico e ciò che è psichico e simbolico non possono essere predefiniti. Chi in mare e chi a terra – magari davanti a uno schermo – in realtà «tutti siamo imbarcati», scriveva già Pascal. In realtà non c’è distanza, non c’è spettatore che osserva, bensì soltanto un unico gruppo di barcamenanti. Ma allora perché sin dai tempi di Lucrezio vengono tirati in ballo sia la distanza che lo spettatore? Per la risposta, gli scritti di Psiche ci mettono sulle tracce psicopolitiche di una delle più radicate ideologie che governano la nostra «società dello spettacolo»: il credere che in essa ci siano ancora distanze di sicurezza assolute dalle quali si può opporre resistenza – anche in senso psicoanalitico – alle tempeste e alle persone che vengono dal mare.
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