Proviamo a ricominciare dalle pietre
A chi non è capitato, nelle passeggiate in riva al mare, chinarsi per raccogliere una pietruzza che ci ha colpito per la sua strana forma, il colore attraente, la natura nascosta. È forse il pezzetto di un manufatto umano, trasformato dal moto delle onde e dai suoi misteriosi spostamenti? O la sua personalità di minerale autonomo ha spinto questo sasso a assumere un aspetto che suggerisce qualcosa alla nostro linguaggio, al nostro immaginario?
Le pietre – ha osservato Roger Caillois, che ne possedeva una ricchissima collezione – ci inviano «segnali discreti, ambigui, che attraverso filtri e ostacoli di ogni sorta ricordano che deve pur esistere una bellezza generale, primigenia, più vasta di quella intuibile dell’uomo, che gioisce di essa ed è orgoglioso di produrla». Ma rispetto alla bellezza indecifrabile offerta dalla pietra «la bellezza umana non rappresenta che una formula tra le altre».
E il grande scrittore e antropologo francese ipotizza che la vanità e il malanimo dell’uomo, non sopportando questi segnali dall’”architettura dell’universo”, ma vedendo che si tratta di qualcosa di «fondamentale e di indistruttibile che lo sgomenta» scarica l’invidia nella brutalità del termine “minerale”. Tu pietra non hai vita, sei «l’immobilità visibile della morte».
Una delle molte rivalse violente del simbolico di dominio che ammorba la nostra cultura?
Eppure i tempi stanno cambiando anche nella relazione con le pietre. Sul sito Il Tascabile, edito da Treccani, un articolo di una giovane scienziata, Laura Tripaldi, intitolato I minerali e la vita suggerisce un’idea radicalmente diversa. Parte da un sassolino che amava da piccola, avuto dalla madre e dal nonno, un oggetto perfettamente liscio ma che, portato all’orecchio, produceva il suono di una piccola quantità di acqua, conservata al suo interno.
Da qui, con ricche citazioni di svariati studi, si arriva all’ipotesi che la nascita della vita sulla terra sia nata soprattutto grazie a una interazione tra microrganismi organici e cristalli minerali. La pietra dell’infanzia si chiama onidro: nella sua acqua intrappolata da decine di milioni di anni sono state trovate tracce di questi microrganismi. Alcuni ancora vivi (!), racconta l’autrice. Insomma, per farla breve, sarebbero state proprie le qualità di certi minerali a formare una “culla geologica” che ha favorito la vita. E non il famoso “brodo primordiale” frequentato solo da “superiori” brandelli già organici.
C’è una morale della favola?
Forse è intuitiva. Vedo, con la coda dell’occhio, che si moltiplicano un po’ in tutto il mondo nuove filosofie che teorizzano comportamenti intelligenti non solo tra gli animali, ma anche tra le piante. Realtà da cui avremmo molto da imparare, e che dovremmo frequentare con cura. Ora il discorso arriva agli oggetti che abbiamo da sempre considerato inerti, morti, con i quali è impossibile comunicare.
Mi sembra sempre più chiaro che le culture che ereditiamo anche da nobili tradizioni, non riescono a guidarci in modo sensato. Chi conosce un po’ la filosofia tedesca sa che la parola grund significa, fondo, terra, e fondamento teorico. Servono “nuovi fondamenti”. Forse sarebbe meglio cercarli pensando che quel suono tedesco leggermente inquietante, carico di equivoci tragici sull’essere, il nulla, la morte, ecc. indica la nostra culla. Qualcosa a cui ispirarsi per una vita migliore?
Ps: mi sono accorto solo in questi giorni che a Roma, a Villa Medici, è aperta un mostra, Storie di pietra, ispirata proprio a Caillois e a tanto altro a proposito dei nostri strani compagni minerali.
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