L’evento fondativo di Azione!, la forza politica di Carlo Calenda che da domani si trasforma ufficialmente in partito, diventa l’occasione per la gran parte delle forze che sostengono il governo Draghi di discutere del futuro prossimo. Al Palazzo dei congressi dell’Eur ci sono il segretario del Partito democratico Enrico Letta, il volto governativo della Lega Giancarlo Giorgetti, il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani, il ministro di Articolo 1 Roberto Speranza ed Ettore Rosato per i renziani di Italia Viva. L’ospite Calenda è entusiasta: dice di aver creato dal nulla il «sesto partito italiano». In virtù di questo piazzamento si ritaglia il ruolo di tessitore degli equilibri politici a venire: dispensa patenti di affidabilità, disegna coalizioni, traccia scenari.

LA SUA IDEA è nota ormai da qualche tempo: i partiti di centrodestra e centrosinistra devono unirsi contro «populisti e sovranisti». «Veniamo dalle grandi famiglie politiche europee – chiede il leader di Azione! – Ma poi alle elezioni ce ne andiamo con Fdi e M5S? Noi non saremo mai alleati con i populisti e i sovranisti, la scelta è nel vostro campo». La scelta è soprattutto nel campo, anzi nel «campo largo», di Enrico Letta. Il quale non ha dubbi nell’includere Calenda nel suo progetto di centrosinistra: «Sono sicuro che insieme faremo grandi cose per il nostro paese, sono sicuro che voi giocherete un ruolo importante e che insieme, senza ambiguità tra di noi, vinceremo le elezioni politiche del 2023 e daremo un governo riformista e europeista a questo paese», assicura il segretario dem.

GIORGETTI FA un passetto di lato, ma non chiude le porte alle avances di Calenda. Tutt’altro: «Non posso promettervi come ha fatto Letta che saremo insieme e vinceremo le elezioni – dice il ministro dello sviluppo economico – Ma ci sono grandi spazi di collaborazione tra noi». Calenda coglie la palla al balzo e ne approfitta per distinguere tra Giorgetti e Salvini: «La Lega può essere un interlocutore se decide cosa essere – precisa – Se è quella di Giorgetti si può dialogare. Ma se è quella di Salvini non può essere: non è né dignitoso né serio dire una cosa la mattina e dire il contrario la sera».

LO SCAMBIO in casa Calenda non può prescindere da alcuni nodi. Alcuni dichiarati. Il primo è il governo Draghi. «Noi vogliamo sostenere oggi e nei prossimi mesi, l’azione riformatrice del governo Draghi, la vogliamo portare avanti per il bene del paese senza ambiguità – assicura Letta – Io credo sia molto importante che come metodo ci si dia quello dei temi non negoziabili e dei temi negoziabili. Ci sono questioni sulle quali si pone la fiducia e altre sulle quali si negozia, si discute in parlamento. Bene Draghi e bene il metodo che da oggi mette in campo, noi ci siamo». Giorgetti sostanzialmente concorda: «Le sfide che ci attendono impongono scelte impegnative che impongono un governo che non solo possa, ma che sappia decidere, una democrazia che aiuti la crescita senza pensare a tornaconti elettorali».

IL SECONDO, evocato ieri solo parzialmente, sono le riforme e soprattutto la legge elettorale. «Non ho tabù, discuto di tutto – dice Giorgetti – Ma una legge elettorale proporzionale fatta semplicemente per avvantaggiare qualcuno è sempre sbagliata. La legge elettorale deve permettere di avere un governo che possa decidere, far crescere una nuova classe dirigente».

SU QUESTI SCENARI incombono infine le sorti dei 5 Stelle. Persino Goffredo Bettini, grande sponsor dell’asse con il M5S di Giuseppe Conte, ormai ragiona apertamente della possibilità che alle prossime elezioni Lega e Pd pareggino e che dunque si debba procedere ad un bis della maggioranza Draghi. Il quale pone il veto sul M5S senza troppa convinzione. O meglio, si dice convinto che finiranno per implodere prima che il Pd decisa di scaricarli: «Saranno alleati finché continueranno ad esistere – sono le sue parole – Cioè secondo me ancora per poco». Anche se nei giorni scorsi ha detto di considerare Conte altra cosa dal M5S delle origini. Dunque, se le cose tra i grillini paralizzati da beghe legali e divisioni politiche, dovessero precipitare e Conte dovesse decidere di farsi un suo partito, tutto sarebbe più facile per la grande coalizione immaginata da Calenda. Almeno a tavolino, visto che da almeno tre legislature gli equilibri di governo decisi prima del voto vengono fatti saltare da variabili elettorali impreviste dai partiti.