Provare a vivere nella turbolenza planetaria
SCAFFALE «Making Kin. Fare parentele, non popolazioni», a cura di Adele Clarke e Donna Haraway per DeriveApprodi
SCAFFALE «Making Kin. Fare parentele, non popolazioni», a cura di Adele Clarke e Donna Haraway per DeriveApprodi
Making Kin. Fare parentele, non popolazioni (DeriveApprodi, pp. 237, euro 17) «è un lavoro collaborativo piuttosto che una semplice collettanea». Così Adele Clarke nel primo saggio che inizia a tessere la trama di un volume rizomatico, co-curato con Donna Haraway e a cui hanno contribuito altre cinque «femministe progressiste» (Ruha Benjamin, Michelle Murphy, Yu-Lin Huan, Ching-Lin Wu e Kim TallBear). Per il pubblico italiano, la tela è ulteriormente arricchita dall’attenta traduzione e dalla puntuale postfazione di Angela Balzano, Antonia Anna Ferrante e Federica Timeto.
Le autrici, pur nei loro differenti posizionamenti, sono apparentate da una ragnatela fatta di un obiettivo comune, un’analisi accurata e un notevole coraggio. L’obiettivo è quello di «assumersi una responsabilità più profonda per il degrado ambientale e le estinzioni di massa, e lottare per generare e dare valore a parentele eterogenee in vista di una giustizia riproduttiva multispecie».
L’ANALISI è quella che prende corpo nel nodo, complesso e problematico, costituito da «riproduzione, demografia/popolazione, ambiente», nodo che lega indissolubilmente umani e non-umani. Il coraggio, infine, è quello di porsi domande scomode, affrontando, senza timore, tematiche insidiose e terreni scivolosi.
Preso atto del danno irrimediabile che ben precisi gruppi umani hanno inferto alla Terra e che ormai non si configura altra via di fuga se non di provare a vivere nella turbolenza planetaria, le autrici si muovono lungo tre precise direttrici metodologiche: non trasformare questioni sistemiche in scelte individuali, evitare qualsiasi forma di universalizzazione e impegnarsi «a vedere con senza pretendere di vedere come». Molti sono i fili che le autrici (e le curatrici italiane) secernono e re-intrecciano in un gioco a ripiglino a 20 mani: i tre principali, però, sono raggruppati già nel sottotitolo: «popolazioni», «parentele» e «fare».
Il primo – più tormentato in Clarke, Haraway, Huang e Wu – si dipana tra la consapevolezza dell’inusitata violenza colonialista che impregna il termine «popolazioni» e la necessità di dover comunque dare conto della quantità pressoché inimmaginabile di «vite a perdere» prodotte a ritmo incessante dall’eteropatriarcato capitalista. Il secondo – più consistente in Benjamin, Murphy e TallBear – sprona a costruire mondi comuni che smantellino i confini vita-morte, umano-animale, tecnica- natura, per far proliferare alleanze che superino le genealogie biologiche e l’identitarismo reazionario verso un riconoscimento della «carne comune», in cui «si radicano i rischi ambientali e le gerarchie sociali». Infine il terzo che, attraversando ogni pagina del libro, significa sempre «costruzione» di nuovi rapporti e «manutenzione» di quelli già esistenti, «attraverso lo scambio di cose, attività condivise e altre pratiche», per favorire «altri tipi di intimità non focalizzate sulla riproduzione biologica ma sulla cura».
PUR NON POTENDO riassumere tutta la complessità com/pensante di questo favoloso intreccio femminista, un altro filo aracnoidale va però segnalato: l’urgenza di creare «nuovi vocabolari per futuri alternativi». Ecco allora comparire il postvita di Benjamin, per sottolineare come i sistemi oppressivi facciano seguire la morte sociale a quella materiale; i Nati e gli Scomparsi di Haraway, per parlare rispettivamente delle vite prodotte per essere consumate e di quelle uccise senza sosta dalla necropolitica globalizzata; l’altervita di Murphy, «ricomposizione danneggiata» di corpi, «acqua, sostanze chimiche, suolo, atmosfere, microbi e ambienti costruiti», che «spinge a speculare sul potenziale di essere altrimenti»; il soci-o-connessioni di Huang e Wu, per indicare «relazioni più creative e orientate alla comunità»; e la non monogamia aperta di TallBear come parte del «processo di decolonizzazione dalla sessualità imposta».
Nella polifonia di Making Kin è, insomma, possibile rintracciare, come sostenuto dalle curatrici italiane, un Leitmotiv che ha le fattezze di «una pratica che richiede tempo, creatività, condivisione e attenzione» e la potenza di queerizzare l’esistente per materializzare la capacità trasformativa di «vedere altri modi di fare mondi» altri.
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