Proust, musica per le intermittenze del cuore
Proust è in ginocchio, ai piedi di una giovane donna con una lunga gonna bianca e uno strambo copricapo à la chinoise. Guarda verso il fotografo con un sorriso divertito, tenendo tra le mani una racchetta da tennis: il piatto corde appoggiato a un fianco, il manico stretto tra le dita della mano sinistra. E finge di suonare. Suona spiritosamente quella racchetta come se avesse con sé una chitarra, un liuto o un mandolino. Un gesto semplice, comune che suscita un sorriso tenue anche negli altri personaggi della «commedia giocosa», improvvisata davanti all’obiettivo: una bambina vestita di nero seduta su una sedia, una donna matura che mostra il manico di una racchetta, un ragazzino vestito da marinaretto che brandisce un bastone da passeggio. La fotografia è stata scattata nel 1891 in un circolo del tennis «alla moda» del tempo: il Club di Boulevard Bineau a Neully-sur-Seine – non lontano da Bois de Boulogne – che Proust allora frequentava abitualmente. «Troppo debole e malato per giocare – annota André Maurois in Le monde de Marcel Proust – lo scrittore si occupava principalmente di intrattenere la cerchia delle fanciulle e di offrire loro giochi e prelibatezze».
Ma quel demi-monde elegante e vaporoso era già per lui, appena ventenne, un prezioso osservatorio di caratteri, volti, comportamenti, sguardi, abiti, parole. La nourriture terrestre, in altre parole, della sua nascente immaginazione letteraria. La ragazza con la gonna bianca è infatti Jeanne Pouquet, fidanzata quindicenne del suo amico Gaston de Caillavet. Marcel l’aveva incontrata – simulando uno scherzoso innamoramento – nel rinomato salon della madre di Gaston, Madame Arman, la «ninfa egeria» – come si diceva allora – di Anatole France. E non è affatto un caso che la lunga treccia di Jeanne, raccolta nel cappellino cinese, si trasformi, nelle pagine della Recherche, nella coda di Gilberte, la figlia di Charles e di Odette per la quale il Narratore proverà un amore assai effimero. Ma anche l’innocente mise en scène fotografica di Neully-sur-Seine contiene in realtà un seme destinato a fiorire. Nel gesto giocoso di sfiorare le corde di una chitarra invisibile si nasconde infatti una delle molte, prismatiche idee di «musica» che si intarsiano nell’universo narrativo e esistenziale di Proust. Forse la più profonda.
È il leitmotiv, frequentemente esposto e variato, della musica come ludus, come gioco, e dunque, secondo l’etimo filosofico proposto da Massimo Cacciari, come pharmakon, medicina della mente. La musica, in tutte le sue apparizioni, corre sempre, nelle pagine della Recherche, lungo il crinale che divide il dolore dalla cura, la malattia dal balsamo, la sofferenza dal lenimento. E si rivela spesso l’unico farmaco in grado di acquietare, di guarire le «intermittenze del cuore». Questa è in fondo la dimensione in cui si manifesta, alle orecchie di Swann, l’enigmatica Sonata di Vinteuil, più volte citata nel romanzo. Che questa pagina cruciale sia musica vera (Brahms, Franck, Saint-Saens, Borodin, Faurè…) oppure del tutto immaginaria, poco importa: è cruciale invece la sua funzione. La cosiddetta petite phrase che Charles ascolta per la prima volta nel salon di Madame Verdurin non riconduce immediatamente, attraverso il meccanismo della «memoria involontaria», al ricordo di Odette. Al contrario quel «suono» («nemmeno lui sapeva se fosse una frase oppure un’armonia») gli «apre profondamente l’anima», come «certi odori di rosa che circolano nell’aria umida della sera hanno la proprietà di dilatare le nostre narici». E da quel momento quella rivelazione sonora «sine materia», per quanto destinata fatalmente a spegnersi, gli diviene necessaria come una medicina dell’anima: «Tornato a casa aveva bisogno di lei», come un uomo che ha visto passare davanti a sé «l’immagine di una nuova bellezza» e se ne è innamorato, anche senza sapere il suo nome. Un nome che Proust aveva forse già «cantato» nel Club di Boulevard Bineau sfiorando, senza toccarle, le corde di una racchetta da tennis.
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