L’erudizione richiede molto gusto. Non solo perché occorre avere il gusto dell’erudizione, ma perché l’erudizione, guidata dal gusto, significhi qualcosa, sottraendosi al mero accumulo di dati e informazioni e trascegliendo ciò che, ben organizzato, può funzionare come ricostruzione storica: occorre gusto per non essere inerti di fronte al muro costruito con i mattoni delle informazioni; e occorre gusto anche per non sbattere la testa contro quello stesso muro. Solo così, infine, discernendo e giudicando, si allineano con chiarezza molti fatti per individuare e considerare il tratto funzionale: è in quel momento che l’erudizione, trovato un percorso, diventa gesto critico, o almeno un tipo particolare di critica.

Sono alcune tra le cose che venivano in mente leggendo intero e poi piluccando Proust e la società di Jean-Yves Tadié (traduzione di Roberta Capotorti, Carocci, pp. 182, € 18,00; della traduttrice, presso il medesimo editore, è appena uscito, e si vuole almeno segnalarlo, Leggere Proust, pp. 111, € 13,00). Alcuni libri sono fatti così: valgono per l’insieme, ma ogni parte conta anche per sé, non meno dell’intero.
Tadié qualche decennio fa ha fornito due strumenti fondamentali per l’avvicinamento a quel grande: ha diretto l’edizione critica e commentata della Recherche per la Pléiade; e ci ha dato un’ampia Vita di Marcel Proust (ora riproposta negli Oscar «Baobab» Mondadori): due imprese precedute e seguite da una rilevante corona di altri importanti contributi, a partire da Proust et le roman, del 1971, e passando almeno (l’elenco sarebbe molto lungo) per il suggestivo Le lac inconnu. Entre Proust e Freud, del 2012.

Ma ha anche, di recente, 2019, pubblicato un libro di schegge proustiane, Marcel Proust. Croquis d’une épopée, che di Proust e la società conteneva più di qualche annuncio, perfettamente autonomo nella sua forma saggistica e occasionale nel senso più nobile (la critica deve molto all’occasione, a partire dalle occasioni fondamentali che sono le uscite di nuovi libri). Di più, alcuni di quei capitoli (per esempio quelli dedicati al mare, ai giardini, alla serra, a Pompei, a Versailles, alla stampa) a buon diritto avrebbero potuto far parte del libro attuale per la particolare articolazione e declinazione della «società» per come Tadié l’ha, a parer nostro giustamente, intesa. Per questo si è detto che il suo leggere Proust vale per l’insieme ma anche per ogni parte. Una sintesi di questa sua doppia vista è appunto Proust e la società, una ricerca su quelli che potrebbero chiamarsi i contesti proustiani; senonché in nessuno come in Proust (epistolografo compreso) il contesto è lì pronto a far testo, a essere una forma specialissima di manifestazione del testo, in un andirivieni mai stanco, da moto ondoso: e viceversa. È uno dei motivi per cui l’intreccio tra la biografia e l’opera, croce e delizia di ogni indagine proustiana, non può mai del tutto essere districato. Sia detto con fretta, visto che ognuno lo sa: era una questione messa a fuoco in Contro Sainte-Beuve, contro cioè quel critico che prima di esprimere un giudizio sull’opera aveva bisogno di conoscere (possibilmente) ogni minuto della vita dell’autore in oggetto, cosa che non gli garantiva di andare a bersaglio: ma, in quell’andare contro, Proust aveva benissimo visto la necessità di rimanere dentro l’intrico, però portando quei minuti o quelle ore a un significato ad alta tensione e a non meno alta funzionalità.

Di Proust e la società l’indice mostra che si tratta di una vera e propria mappa attraverso la quale ripercorrere il romanzo: nella maniera che ci ha consegnato la mnemotecnica, che ad ogni stanza crea delle associazioni, come ci ha insegnato Frances A. Yates nel celebre L’arte della memoria, titolo di non poca pertinenza per Proust e per questo libro a Proust dedicato. Nella parte «sociologia» troviamo i capitoli dedicati al popolo, ai domestici, alla finanza, al denaro; in «geografia» stanno i capitoli su Parigi, la vita di provincia, l’albergo, le cattedrali; in «storia» troviamo una ricognizione della famiglia di Proust, figure della politica, della modernità, della memoria storica (Dreyfus, la guerra del 1914); nella quarta parte, «psicologia», sono gli amori e il tempo vissuto (struttura, trattamento, romanzo e personaggi).

Si è detto della particolare accezione di «società» in Tadié; va aggiunto che anche ognuna delle discipline-categoria che danno titolo alle quattro parti è usata da Tadié in maniera estesa, come un luogo di risonanza e di rimandi: austeramente e quasi clinicamente presentato, ma, a ben leggere, poi, pieno di allusioni. Meglio portare un esempio. Nel capitolo sul denaro c’è un paragrafo fulmineo dedicato a Proust e Henry Bernstein, «un accanito giocatore e autore di teatro di successo» conosciuto tramite Antoine Bibesco. Proust gli presta dei franchi per giocare a baccarà. Bernstein perde e Proust non ha altro da prestargli. Bernstein in passato ha anche finanziato dei fantini: «ispira a Proust il personaggio di Octave, che dopo aver perso al casino di Balbec, dichiara: “Sono in piena crisi”», scrive Tadié. L’effetto è di quelli ben noti ai lettori di Proust: nonostante l’ampiezza del romanzo, saper poi racchiudere in una frase un intero mondo, con la forza della frase che arriva anche da ciò che ne viene omesso – e di cui resta misteriosamente traccia – quando la si traduce dalla vita nel romanzo. Ma, Bernstein essendo drammaturgo, quando Proust descrive il modo della drammaturgia di Octave il modello ne è Cocteau. Conclude Tadié: «Li si vede simbolicamente riuniti in una carta da gioco raffigurante Judith (titolo di un’opera di Bernstein), la dama di cuori, inviata a quest’ultimo da Cocteau nel novembre 1922». Occorrono molte vite per farne una, diceva il nostro poeta. Occorrono i frammenti di molte vite per fare un personaggio: non per caso Octave è il personaggio che invera la teoria del «duplice io».

Dovessimo indicare un capitolo da leggere subito, diremmo che è quello dedicato all’hôtel: l’albergo è una figura che attraversa l’intera Recherche. A buon diritto si può annoverare tra i protagonisti del romanzo. Non è un mero luogo né un contenitore di avvenimenti, ma un personaggio: «La vita fuori Parigi si svolge in albergo. Non ci si immagina Proust proprietario di una casa di campagna», osserva Tadié: ma perché no? Resta la certezza che avrebbe comunque preferito un albergo (anche se sappiamo, dal commento di Alberto Beretta Anguissola ad Albertine scomparsa nei Meridiani, che Proust avrebbe voluto affittare, per un progettato viaggio in Italia, Palazzo Farnese di Caprarola, «l’immenso pentagono rinascimentale del Vignola, a pochi chilometri da Viterbo»). L’albergo in Proust ci permette di capire «che cosa ci mostra di un sistema sociale, di un microcosmo, dell’organizzazione particolare che rappresenta». Ed ecco la rassegna divertita degli alberghi dei quali Proust fu ospite, culminanti nel Ritz e, nel romanzo, nel Grand-Hôtel di Cabourg (ovvero Balbec) e nel luogo opposto che è l’hôtel di Jupien, con la stanza dei goduriosi supplizi di Charlus.

Importante che gli alberghi non fossero rumorosi, ma anche che non avessero saponi troppo profumati. Nel romanzo a Marcel le camere infondono solitudine, ma negli spazi comuni nascono rapporti con strani direttori e ragazzi di ascensori a corde. Il personale è non sempre adeguato, la clientela non sempre educata, però ciò consente qualche considerazione su varianti e costanti della natura umana, e sui rapporti tra le classi sociali: l’albergo è protettivo delle classi abbienti anche durante l’esercizio del vizio impunito («più in là, dietro una vetrata chiusa, alcuni individui sedevano in una sala di lettura»); ed escludente – quando non dedite al servizio – le non abbienti. Una celebre pagina del romanzo è così riferita da Tadié: «gli abitanti del paese si riuniscono davanti ai vetri di una veranda che ospita la sala da pranzo come se contemplassero i pesci di un acquario. E Proust pensa che un giorno gli spettatori potrebbero rompere il vetro per impadronirsi dei pesci e divorarli». È uno sguardo politico, come quello sull’affare Dreyfus e quello sulla morte delle cattedrali. Dotto, erudito e sagace, e miniera di spunti, sia permesso di dire che Proust e la società è anche un libro di grande divertimento intellettuale: «Amusons-nous», dunque, come invita a fare il capitolo sugli alberghi.