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Prospettiva Cristian Mungiu

Prospettiva Cristian Mungiu

Intervista «Animali selvatici», l'ultimo film del cineasta romeno, è una radiografia della natura umana: conversazione con il regista

Pubblicato circa un anno faEdizione del 12 agosto 2023

Tu sei originario del luogo dove hai girato «R.M.N.» (Animali selvatici), la Transilvania? Mi chiedevo se fosse una realtà che conosci bene e se è per questo che l’hai scelto.
L’origine del mio nome, Mungiu, non è rumena. Il nostro nome ha un significato in turco, significa «candeliere» o «candelaio». La mia famiglia ha origini greche, e attraverso la Turchia sono arrivati in Moldavia. Quella che è l’attuale Repubblica moldava era un grande melting-pot di diverse culture e popolazioni, che però a un certo punto, come accade oggi in Ucraina o nel mondo ex-sovietico, dovettero lasciare le loro case (nel 1940, quando i russi occuparono questa parte della Romania). Questo ha marchiato le loro vite e anche le nostre.
Quindi non ho legami familiari con la Transilvania. Ho scritto la sceneggiatura basandomi solo su quello che potevo documentare attraverso internet rispetto a quello che lì è successo veramente, andando successivamente nel villaggio dove tutto è accaduto e verificando sul campo i fatti ho raccolto altro materiale, ho parlato con le persone. Subito dopo questa fase di ricerca sono andato a Cannes, poiché mi avevano chiesto di far parte della giuria; il mio sales agent mi ha chiesto di presentare la storia ai distributori, ed è andata molto bene perché hanno preso il film fidandosi della mia presentazione. Parlando a queste persone, ho realizzato che non gli stavo presentando il film, ma quello che gli sta dietro: perché vivere in un piccolo villaggio come questo, circondati dalle foreste, e perché considerare che ogni volta che qualcuno arriva dall’altra parte della collina debba essere un nemico, perché non appartiene alla nostra tribù? Questo accade perché è stato così per migliaia di anni e si è sedimentato in noi. Quindi ho dovuto spiegare a queste persone innanzitutto cosa fosse la Transilvania, perché ci sono ungheresi al centro della Romania e non vicino al confine, perché ci sono dei tedeschi, quando sono arrivati… Più parlavo più mi rendevo conto che il film sarebbe stato molto complesso, storicamente, geograficamente, ma soprattutto, dal mio punto di vista, rispetto alla natura umana. Perché tutti questi eventi storici ci hanno formati, hanno determinato il modo in cui siamo oggi. Tutte le paure che abbiamo rispetto alle cose che non conosciamo. Per milioni di anni sopravvivevano solo i più forti e questo è il principio dell’evoluzione. Abbiamo iniziato a provare empatia per qualcun altro solo negli ultimi… non so… seimila anni? Dopo che le religioni e le culture hanno iniziato a emergere dicendoci che se tratti bene qualcuno probabilmente ti risponde nello stesso modo, provando a condividere gli stessi spazi.
In una delle molte conversazioni che ho avuto dopo il film, mi è stato detto che c’è ancora solo una parte del nostro cervello che continua a crescere ed è il lobo frontale, sede dell’empatia. Trovo la cosa molto interessante. Perché ci mostra che abbiamo ancora risorse per riscoprirci umani, scoprire l’empatia con le persone, essere capaci di controllare i propri istinti e non necessariamente reagire istintivamente di fronte a ogni situazione. Penso che questo sia molto interessante quando fai un film, vedere che le nostre decisioni in realtà non sono razionali, sono un misto di razionalità, emozionalità e irrazionalità, in relazione al contesto; credo che per questo tipo di cinema è importante riportare di cosa sia fatta la realtà, che non è fatta solo di idee chiare e personaggi semplici.

Come hai lavorato in questo senso?
Ho passato molto tempo, nella scrittura di ogni sceneggiatura, pensando a come i personaggi potessero reagire al di là della loro volontà, senza che ci fossi io dietro, cercando di dargli la libertà di parlare con il proprio linguaggio e di permettergli una certa indipendenza, per essere sicuro che non fossero buoni o cattivi, bianchi o neri, ma esseri complessi.

La sola cosa che mi disturba è che noto che oggi, specialmente tra i giovani, questa complessità non è più così interessante; il modo in cui il cinema era, rispetto alla comprensione della complessità del mondo attraverso il punto di vista di un autore, è qualcosa che si è perduta… In qualche modo ho la sensazione che siamo diventati un po’ troppo pigri mentalmente, e tendiamo a preferire formati che già conosciamo, cose più semplici, dove tutto è chiaro, tutte le domande hanno una risposta, dove non dobbiamo pensare troppo, e forse abbiamo iniziato a considerare il cinema un po’ troppo come intrattenimento. Va bene, c’è una parte che ha bisogno di essere intrattenimento ma usare la nostra testa e capire qualcosa dovrebbe essere parte dell’esperienza cinematografica. È per questo che rimpiango che si sia persa questa esperienza del guardare film insieme ad altri in una sala. Perché quando vedi un film con gli altri se ne parla, si confrontano le idee, si ascoltano quelle altrui, così l’idea virtuale del film si trasforma in qualcosa che entra nella vita reale delle persone che ne parlano, non necessariamente parlando del film ma parlando di sé, della vita… questo è il beneficio della sala, perché quando lo guardi sul tuo divano di casa non ne parli con nessuno, non nello stesso modo.

La radiografia del padre che vediamo attraverso lo smartphone, riporta il nome Mungiu, mi chiedevo se fosse di tuo padre o di qualcuno della tua famiglia.
Sono molto contento perché dopo un anno di interviste è la prima volta che qualcuno nota questa cosa. Quello che è successo è che mentre stavo facendo questo film mio padre è morto. Ed era l’ultimo rimasto della mia famiglia (mia madre è morta da tempo). Lui era un dottore, era una persona molto razionale e mi ha molto influenzato, nel modo in cui vedo il mondo per quello che è più che per quello che vorrei che fosse. Quindi ho pensato di fargli un piccolo omaggio e volevo che anche lui fosse nel film in qualche modo.

In «Animali selvatici» tutto accade perché la fabbrica ha bisogno di pagare meno le persone, quindi assume gli stranieri che accettano cifre più basse rispetto ai locali, che da parte loro vanno a cercare lavoro in Germana. La struttura che muove le forze del film è il Capitalismo: è qualcosa che nel film c’è ma non lo si nomina mai. Mi domando se per te non fosse troppo dire che il Capitalismo è la situazione che produce tutto questo: populismo, lotta tra poveri, disuguaglianza…
Penso che ci sia un pericolo in un film se verbalizzi troppo, perché le persone tendono a semplificare troppo le cose e queste non hanno mai una sola spiegazione. Certo che è in parte dovuto al Capitalismo, ma la cosa è più complessa di così. Il fatto che il Capitalismo generi questi problemi, non vuol dire affatto, dall’altra parte, che il Comunismo fosse meglio, non lo era in nessun modo! È per questo che cerco sempre di giocare su livelli diversi, quello sociale, quello della natura umana.

Penso che se il protagonista del film impara qualcosa, è che anche se pensi di vivere nel comfort senza avere un’opinione, stando solo nel tuo, senza farti coinvolgere, questo non ti solleva dalla responsabilità di avercela un’opinione, e di essere responsabile di quel che accade. Anche se non vuoi partecipare sei sempre responsabile. Penso che per fortuna lui lo capisce, alla fine del film, e questo è uno dei motivi per cui il film è così stratificato. Se tu ti ostini a interpretare te stesso e la complessità della realtà in due parole, osservando solo superficialmente, nessuna delle molte interpretazioni che se ne possono dare saranno mai sufficienti. Il film dovrebbe contenerle tutte, proprio perché il film non è solo un fatto verbale. Le parole ne aiutano la struttura ma un film è una cosa più complessa, proprio perché la vita è più complessa. Più definitivo vuoi essere, più lasci da parte molte cose.

Come la propaganda!
Sì esatto! I film dovrebbero riportare la complessità della vita. Stimolare a pensare oltre, e di dubitare, anche di ciò che credi. Mai accontentarsi di quello che ci appare sicuro. Pensare, cercare di metterti nelle scarpe di qualcun altro, le cose potrebbero apparire diverse…

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