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Botte piena, economia ubriaca

Botte piena, economia ubriaca

Il fatto della settimana Lo spumante dello spritz tira la volata ai vini italiani, consentendogli di superare quelli francesi. Tutti i rischi della monocoltura e dell’uso di pesticidi

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 11 luglio 2019

Il vino in bottiglia vale il 10 per cento dell’export agroalimentare italiano, oltre 4 miliardi di euro nel 2016 secondo l’ultimo dato dell’Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare). Tocca i 5,2 miliardi se si aggiunge anche il dato relativo ai «vini spumanti», come il prosecco, un ambito merceologico che tra il 2012 e il 2016 è cresciuto del 17,6 per cento per quanto riguarda l’accesso ai mercati esteri. È solo sul mercato globale dei pomodori pelati che l’Italia pesa più del vino, mentre la pasta è relegata al terzo gradino del podio. Questi trend sono confermati anche nel 2018, che ha visto l’Italia vendere sui mercati esteri quasi 20 milioni di ettolitri di vino, su una produzione totale di 55 milioni di ettolitri (in crescita del 29% su base annua). Il nostro Paese «conferma il suo ruolo di leader mondiale nella produzione di vino e consolida la sua posizione di esportatore» spiega l’Ismea.

IL VALORE COMPLESSIVO DELL’EXPORT, 6,2 miliardi di euro nel 2018 (oltre ai vini in bottiglia e agli spumanti, il dato comprende il vino venduto in bag in box e sfuso), porta l’Italia al secondo posto tra i maggiori fornitori mondiali, alle spalle della Francia. «Un ruolo frutto della crescita robusta delle esportazioni nell’ultimo decennio (+70% l’incremento in valore dal 2008), consolidata anche nell’anno appena trascorso (+3,3% l’export in valore)» spiega un comunicato dell’Istituto per il mercato agricolo alimentare, che aggiunge un elemento all’analisi: a trainare le esportazioni del settore, nel 2018, sono stati i vini Dop, con un aumento del 13% in volume e del 12% in valore.

I VINI DOP, CHE CONTANO CIOÈ SU UNA Denominazione di origine protetta (riconosciuta in seno all’Unione europea) sono quelli sulle cui etichetta compare la scritta Doc e Docg. Indicativamente, sono i prodotti di maggior qualità (perché provengono da zone tradizionalmente vocate alla produzione di vino, tanto da diventare veri e propri brand globali, pensiamo ad esempio a tutto il Chianti o alle Langhe di Barolo e Barbaresco), anche se questo tipo di «riconoscimento», che non è una «certificazione» non ci dice niente sulla qualità ambientale, né sulla salubrità di quel vino.

LA CORSA DEL PROSECCO DOC SUI MERCATI MONDIALI, ad esempio, comparta una corsa a nuovi impianti in Veneto e in Friuli-Venezia Giulia, che è bloccata solo nei Comuni dell’areale più ristretto del Prosecco Superiore Docg (Valdobbiadene, Asolo). La frontiera della vigna avanza, a scapito del bosco («La sfida non è puntare a trasformare i 7mila ettari di bosco che sono inclusi nell’area, ma è far capire a chi compra una bottiglia del nostro vino cosa c’è dentro» spiegava a La Stampa Innocente Nardi, presidente del Consorzio di Tutela del Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg), ed è un po’ come la frontiera della soia che si mangia la Foresta Amazzonica, e che finirà nei mangimi che alimentano i bovini che poi noi mangiamo.

QUANDO ATTRAVERSIAMO UN PAESAGGIO integralmente vitato, senza più boschi né aree verdi libere, dobbiamo pensare criticamente alla monocultura, senza lasciarci viziare dalla passione per il vino o dal riconoscimento di Patrimonio mondiale dell’umanità che l’Unesco ha dato il 7 luglio scorso alla zona storica del Prosecco tra Conegliano e Valdobbiadene e prima ancora a Langhe-Roero e Monferrato, in Piemonte. «La monocultura, qualsiasi essa sia, anche se è fatta nel migliore dei modi, è un problema: la solidità di un ecosistema dipende dalla sua complessità, e quando lo si va a semplificare, si rende debole» spiega all’ExtraTerrestre Adriano Zago, agronomo ed enologo, specializzato in vigna e vino e coordinatore didattico di Cambium (https://cambium.bio), associazione che si occupa di alta formazione in agricoltura biodinamica.Per questo, sottolinea Zago, «quando in vigna ci si limita all’idea di non usare i veleni, cioè si lavora in biologico, ma non si includono altri elementi di cura, il rischio per l’ecosistema è presente». Un viticoltore, quindi, può contribuire a conservare e preservare la qualità dell’ecosistema inserendo tra i filari e intorno agli impianti quelli che Zago definisce «elementi di biodiversità», che vanno dai sovesci polifunzionali ed edibili, che servono per le entomofauna utile e per la regolazione del vigneto, agli alberi da frutto, «utili per noi e per tutti gli uccelli, dai merli alle rondini agli storni, che poi mangiano ogni giorno centinaia di larve di tignoletta», e hanno un ruolo fondamentale per chi vuole curare il vigneto senza utilizzare prodotti fitosanitari (chiamateli pure pesticidi, insetticidi, fungicidi…).

A RENDERE ANCORA PIÙ GRAVE L’«EFFETTO monocultura» è il modo in cui viene condotta la vigna. «I diserbanti sono i maggiori responsabilità della distruzione di sostanza organica (da cui dipende la capacità del suolo di produrre, ndr), mentre gli insetticidi sono più pericolosi a livello ambientale» sottolinea Zago. Gli erbicidi sono pericolosi in via diretta (possono causare problemi di salute per gli operatori che li utilizzano) ma anche per un effetto secondario, «che per me diventa primario – dice Zago -, ovvero l’annullamento della vitalità e della vita del suolo: migliaia di studi e di esperienza empiriche e quotidiane, ci dicono che dove utilizzi diserbo il suolo retrograda, la sostanza organica diminuisce, la varietà di funghi, insetti, invertebrati presenti diminuisce, e quel suolo diventa compatto, incapace di assorbire acqua quando piove troppo, né di trattenerla quando piove poco».

I PRODOTTI FITOSANITARI, INVECE, SOLO IN PICCOLA PARTE restano sulle foglie, mentre tutto il resto finisce nell’aria e nel terreno. «Non è mai stato studiato l’effetto combinato di tutte queste molecole, che sono almeno una sessantina ammessa nella viticoltura “convenzionale”. Gli endocrinologi si fermano di fronte a una correlazione di 2 o 3 prodotti diversi».

CHE COSA POTREBBE GUIDARE LE SCELTE di chi acquista una bottiglia di vino, e non vuole contribuire a danneggiare l’ambiente? «Sarebbe importante riuscire a visualizzare il terreno come una formidabile memoria, alla quale non scappa niente. Questo significa che varrebbe la pena trattarlo bene, perché il suolo “racconta” ciò che accade all’ambiente, nel bene e nel male – conclude Adriano Zago – Non a casa, i produttori biologici devono sottoporre la propria uva, ma anche il vino, le foglie e il suolo a un’analisi multi-residuale, che testa un centinaio di principi attivi, che devono risultare assenti». A chi fa convenzionale, invece, si chiede solo di restare entro certi limiti. Limiti di legge che però non certificano che le tue uva siano davvero sane.

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