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Prosa pittorica e morale di Daniello Bartoli

Divano Ammonisce il Salmo xxxvi che quanti operano nel mondo per accrescere il proprio potere e utilizzano senza scrupolo ogni mezzo per primeggiare, «come fieno ben presto seccheranno, come tenera erbetta […]

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 12 aprile 2019

Ammonisce il Salmo xxxvi che quanti operano nel mondo per accrescere il proprio potere e utilizzano senza scrupolo ogni mezzo per primeggiare, «come fieno ben presto seccheranno, come tenera erbetta in breve appassiranno». Ogni potere mondano, quanto più si mostra e si innalza nello splendore solare del suo fastigio, tanto più è destinato a rivelarsi illusorio ed effimero. La ricorrente immagine del sole prescelto a simbolo della sovranità e del pieno, esteso ed assoluto potere nel mondo.

Dalle parole del Salmo xxxvi prende avvio il terzo capitolo de L’uomo al punto che Daniello Bartoli dà alle stampe nel 1657 (in Francia regna dal 1643 Luigi XIV, nella pienezza del potere, di lì a poco e per molti anni, passerà alla storia come il Re Sole). Bartoli, che avrà modo tra qualche anno di redigere (nel 1677) un trattato De’ simboli trasportati al morale, di una tale arte del trasporre ci fornisce un alto esempio quando scrive d’un tramonto, in forma tale che riesce a far coincidere perfettamente i significati morali e i pregi letterari della sua rappresentazione.

Anche il sole (ogni giorno nuovo a detta di Eraclito) è transeunte, così come parrebbe voler insegnare al lettore la pagina di Bartoli, che recita: «come talvolta avviene a chi vede, verso dove sta coricandosi il sole, una nuvola cui egli investe e penetra, e tutta dentro accende e avviva di così densa luce, che l’oro infocato ne perde; e dove ha qualche apertura o squarcio, sembra gittar per esso sprazzi e lampi di luce e riverberi e liste lunghissime di splendori: cosa di tanto vaga apparenza che ella al giudicio de’ nostri occhi, starebbe ottimamente a farsene una gloria di paradiso».

E Bartoli constata che questa è l’intatta, purissima luce con la quale, egli non ne dubita, plasmerebbero gli uomini, se lo potessero, la veritiera statua d’una creatura angelica. Intensità del raggio luminoso del sole che, tuttavia, ci ammaestra Bartoli, inesorabilmente si appanna, diminuisce. E infatti: quella smagliante luce, «in due passi che voi diate e in due altri che ne dia il sole calando sotto il vostro orizzonte, rivolgetevi a cercarla: ella tanto non è più dessa quella mirabile, quella fiammeggiante, quella bellissima di poc’anzi, che né pur le rimane su che riconoscere che già mai fosse bella».

La illustrazione del tramonto, restituita secondo una puntuale registrazione d’ordine pittorico, ovvero secondo le interne variazioni della mutante disposizione cromatica, è condotta da Bartoli mantenendo l’osservazione di quell’effettivo calare del sole tra le nubi in stretta congiunzione con una sua adeguata, corrispondente eloquenza d’ordine morale. Ovvero la lezione d’un universale declinare nel dissolvimento, nel disfarsi. «Cambiato in ruggine l’oro ch’ella pareva, morta in lei ogni luce, e partita quell’anima non sua che le prestava il vivo e bell’essere che da sé non aveva, è rimasa un sozzo cadavero di vapor buio e piovoso».

Fedele al tema del salmista, ora di nuovo Bartoli ci richiama all’illusione dell’uomo che esercita un potere (di sentirsi cioè in possesso di una sua stabile consistenza e definitiva saldezza), ed esplicita in morale la sua rappresentazione del tramonto: «tale è in verità il prestissimo dileguarsi che fa quell’apparenza, quella gran vista, quel luminoso spettacolo che di sé dan qui giù i beati del mondo: tal che gli occhi della carne, incantati a quel bello, a quello splendido, a quel meraviglioso che mostrano, gli stima avere quanto aver si può, un più che piccolo paradiso di beni in terra».

Con le parole dell’apostolo Giacomo, Bartoli conclude: «qual vita è la vostra? È un vapore che apparisce per poco, e subito è dissipato». Insegnamento morale dunque, ma condotto nell’assunto figurato, o vogliam dire pittorico della sua prosa. Nicolas Poussin (1594-1665) in quel medesimo giro di anni, tra i Quaranta e i Cinquanta del secolo, scriveva da Roma (dove pure Bartoli risiede) al suo committente parigino Paul Fréart de Chantelou che molte difficoltà incontra chi voglia «giudicare bene» delle arti intese alla «rappresentazione dei soggetti che si dipingono» o che altrimenti si formulano. Infatti, dice, sono «diversi i modi capaci di produrre effetti meravigliosi».

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