Proroga ambigua, il Colle «persuada» Conte a non farlo
Stato di emergenza La fase in avvio il 18 maggio vede un deciso cambio di passo. A quel che si apprende, si abbandona la strategia dei Dpcm, i decreti del presidente del Consiglio […]
Stato di emergenza La fase in avvio il 18 maggio vede un deciso cambio di passo. A quel che si apprende, si abbandona la strategia dei Dpcm, i decreti del presidente del Consiglio […]
La fase in avvio il 18 maggio vede un deciso cambio di passo. A quel che si apprende, si abbandona la strategia dei Dpcm, i decreti del presidente del Consiglio dei ministri, per passare ai decreti-legge, lasciando le scelte concrete sul cosa, come e quando riaprire alle regioni. Sostanzialmente, è quel che chiedevano i governatori, minacciando il «faccio da me» su larga scala. Avremmo preferito una scelta diversa. Ma è fatta, e conviene interrogarsi sui problemi nuovi ora posti.
Una premessa. Secondo la Costituzione vigente, il garante dei nostri diritti e delle nostre libertà è lo Stato, con i suoi organi costituzionali: Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica, Corte costituzionale. Parimenti, lo Stato può comprimere quei diritti e quelle libertà in situazioni previste e per scopi stabiliti: sanità, sicurezza, incolumità pubblica, fini sociali. Segue, ancora, che è responsabilità ultima dello Stato la compressione in emergenza di libertà e diritti. Solo in via derivata e per quanto consentito possono intervenire autorità locali.
Fin qui la premessa è stata in sostanza osservata, sia pure con un corposo dubbio sul troppo ampio ricorso ai Dpcm e la parallela emarginazione del parlamento. Ne veniva un regime tendenzialmente uguale per tutti, salvo un più o un meno territorialmente diverso, ma consentito da un atto statale di riferimento.
Ora si cambia. La decisione spetta all’autonomia, entro linee-guida determinate da algoritmi. Dall’eguaglianza con limature locali si passa alla diseguaglianza generalizzata, con il minimo comune denominatore dell’algoritmo.
In concreto, d’ora in poi, i diritti e le libertà di tutti gli italiani sono rimessi alla decisione delle autorità locali. Non, come sarebbe stato possibile anche in passato, per eventi emergenziali delimitati nello spazio e nel tempo. Ma per una situazione che investe tutto il paese, per un tempo che è impossibile al momento definire. Tutto ha origine nella situazione di emergenza, e può durare fino alla fine della stessa. È perciò essenziale capire cosa l’ultimo decreto-legge cosiddetto “Rinascita” dispone sull’emergenza.
Questo giornale ha fatto molto bene a mettere in luce (Andrea Fabozzi, il 14 maggio scorso) il tema della “proroga” per sei mesi delle emergenze in scadenza al 31 luglio 2020. Così dispone l’art. 16 del decreto Rinascita, nella stesura fin qui nota. La formulazione è ambigua, non è chiaro a quali emergenze si riferisca, ed in specie se comprenda o meno anche quella dichiarata per il Covid-19 dal consiglio dei ministri il 31 gennaio 2020. A nostro avviso, non c’è bisogno di disporre con legge per quella emergenza una proroga, possibile già in base alla specifica norma (art. 24 Codice protezione civile) che ne è fondamento.
Qualunque proroga in termini ambigui ed incerti crea inevitabilmente il rischio che la compressione di libertà e diritti continui al di fuori dei criteri di necessità e proporzionalità che dottrina e giurisprudenza pongono come parametro insuperabile per la legittimità costituzionale dei limiti, comunque e da chiunque imposti. È dunque comprensibile e giusto che si alzino nel paese attenzione e proteste.
L’Osservatorio permanente sulla legalità costituzionale istituito presso il Comitato Rodotà scrive al Capo dello Stato argomentando ampiamente la illegittimità costituzionale dell’art. 16. Lo sollecita ad impegnarsi in via di moral suasion per una correzione. L’invito va condiviso, perché il terreno di libertà e diritti è troppo sensibile costituzionalmente per essere trascinato sul terreno franoso di una norma ambigua nella formulazione e incerta nell’applicazione. Una moral suasion dapprima in via riservata, poi laddove necessario nella forma rafforzata di una lettera di accompagnamento all’emanazione, sarebbe opportuna. In assoluto preferibile sarebbe che Palazzo Chigi, melius re perpensa, correggesse il testo già nella stesura finale del decreto, in corso in queste ore. Espungendo l’art. 16, o correggendolo per chiarirne e limitarne la portata.
L’appello a intervenire vale anche per le forze parlamentari. Ma è possibile che nelle Camere si giunga a una questione di fiducia preclusiva di modifiche. Bisogna intervenire prima. Non crediamo a rischi di derive autoritarie e antidemocratiche ad opera del governo in carica. Ma il terreno è sdrucciolevole, ed è bene esser cauti. Come direbbero gli inglesi, better safe than sorry.
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