Propp e la fiaba del Boeing
Filosofia della scienza In radicale controtendenza rispetto alla retorica che specula su una miscela di utopia e terrore, Dennis Yi Tenen riabilita i nessi tra umanesimo e tecnologia: «Teoria letteraria per robot», edito da Bollati Boringhieri
Filosofia della scienza In radicale controtendenza rispetto alla retorica che specula su una miscela di utopia e terrore, Dennis Yi Tenen riabilita i nessi tra umanesimo e tecnologia: «Teoria letteraria per robot», edito da Bollati Boringhieri
C’è un modo maggioritario di raccontare la storia dell’intelligenza artificiale, che consiste nel presupporre che il suo scopo stia nell’uguagliare e poi nel superare quella naturale. Le tappe di questo processo coincidono pressappoco con una vicenda breve e intensa: l’invenzione della macchina universale da parte di Alan Turing negli anni quaranta del secolo scorso; il conio del termine «intelligenza artificiale» una quindicina di anni dopo; poi la stagione classica (ricercata attraverso un processo dall’alto in basso, di disegno di una grammatica generale del pensiero); e quindi la nuova stagione, che parte dal mondo dei dati, e per un processo di autoapprendimento sviluppa una nuova e potentissima intelligenza generativa, che potrebbe essere, secondo alcuni, capace di soppiantare l’intelligenza naturale. Con poche varianti, questa genealogia dell’intelligenza artificiale si ritrova in decine di libri e in migliaia di articoli. Molto più raro (anzi, unico) è il racconto alternativo fornito in Teoria letteraria per robot da Dennis Yi Tenen, (traduzione di Andrea Migliori, Bollati Boringhieri, pp. 144, € 20,00) le cui pagine si differenziano per l’estensione storica di una narrazione che va, senza affanno, da Platone a Chomsky; e per la illuminante comprensione del nesso fra umanesimo e tecnologia che ne deriva.
Cominciamo con il concetto di intelligenza artificiale: Dennis Yi Tenen sostiene che è una metafora e niente più, ovvero l’intelligenza sarebbe tale pressappoco quanto la regina delle api è davvero una regina. Personalmente sarei anche più drastico, e direi che si tratta di una catacresi, ovvero di un termine figurato che, come «gamba del tavolo» o «collo della bottiglia», indica qualcosa per cui manca il termine proprio.
È evidente la radicale controtendenza di Dennis Yi Tenen rispetto alla retorica dominante che gioca su una miscela di utopia (le macchine saranno capaci di tutto) e terrore (essendo capaci di tutto, ci elimineranno). Un processo esemplificato dagli slogan di Elon Musk, ma in cui ci si dimentica che la presunta creatura ha una origine umana, con lo stesso equivoco (nota giustamente Tenen) che Marx pone all’origine dell’arcano per cui la merce sarebbe un feticcio «sensibilmente soprasensibile». Riusciamo a evitare che l’intelligenza artificiale, come il dio di Feuerbach, sia la proiezione sovrasensibile di una umanità dimentica del fatto che ciò che ha sparato in cielo e dotato di onnipotenza non è altro se non sé stessa? Per farlo occorrono riflessione e conoscenza storica: quanto alla prima, in ogni macchina, anche la più semplice, si nasconde il lavoro di chi l’ha progettata. Inversamente, l’umano pensa attraverso macchine e attraverso istituzioni, e quella tra intelligenza naturale e artificiale non è una gara, bensì l’attuale forma che ha preso il fatto per cui da sempre l’intelligenza naturale è impegnata nella elaborazione di apparati tecnici che la potenzino e ne riducano gli sforzi. Tutto ciò suggerisce che l’umanesimo sta all’origine della produzione di macchine: è qui che si manifesta e va riconosciuto, lasciando da parte la ricerca di un «umanesimo digitale» che instillerebbe nelle macchine dei principi etici, perché questi non solo non sono universalmente condivisi ma ci sarebbe semmai bisogno che venissero prima di tutto introiettati dagli umani, che spesso si muovono ispirati da principi cinici o malvagi.
Quanto alla storia, Tenen racconta la proiezione dell’umano nella macchina facendola iniziare, (convenzionalmente, perché lui stesso ricorda la condanna della scrittura, cioè della macchina, nel Fedro di Platone) nel XIV secolo con lo storico e filosofo nordafricano Ibn Khaldun, che aveva elaborato una macchina per pronunciare profezie; se il nesso con l’intelligenza artificiale vi pare debole considerate come, anticipando le parole che probabilmente scriverete, anche i vostri telefoni esercitano una moderata azione profetica. Di lì si passa a Raimondo Lullo, che elabora una macchina finalizzata non più a profetare bensì a trovare la verità; dopo di lui, Athanasius Kircher e John Wilkins perseguono l’ideale di una lingua universale; e Leibniz fantastica e in parte attua progetti enciclopedici. Manca stranamente Pascal e la sua calcolatrice, ma Tenen arriva all’Ottocento e alla macchina di William Babbage e Ada Lovelace, e di lì giunge, per fasi, ai nostri giorni. Anche qui la costruzione di una macchina non comporta la separazione dall’umano: Tenen mostra come, accanto alla fabbricazione della macchina per pensare, nell’Ottocento e nel Novecento escano decine di libri dedicati a proporre agli autori a corto di argomenti liste e combinazioni di situazioni narrative. Ma in realtà, il fenomeno è anche più antico, perché nel Settecento Baumgarten, colui che coniò il termine «estetica», suggeriva a poeti e narratori in crisi di ispirazione di «consultare un manuale ontologico»: che era poi un grande dizionario organizzato in forma logica. In questo manuale, d’altra parte – e tornando alla storia raccontata da Tenen – si realizzava, in buona sostanza, il progetto di Wilkins, che consisteva per l’appunto nella redazione di un catalogo generale del mondo, comprensivo di cespugli, alberi, graminacee, così come di relazioni civiche, giudiziarie, militari ed ecclesiastiche, e di molte «idee che costituiscono oggetto di discussione».
La macchina, dunque, non soltanto ha la sua origine, com’è ovvio, nel regno dell’umano, ma serve oltre che per pensare, anche per raccontare. Può avere forma di libro, come dimostrano le 36 situazioni drammatiche di Georges Polti, che assegna all’una o all’altra le opere della drammaturgia occidentale, da Eschilo a noi; o può somigliare a Plotto ideato nel 1928 dallo scrittore William Wallace Cook per trasformare una idea in una storia; o mimare Plot Genie che Wycliffe Hill mise a punto nel 1935, anch’esso con lo scopo di generare trame. Non siamo poi così distanti dai progetti dell’Oulipo o al Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore, sebbene Tenen non vi faccia riferimento, e meno che mai siamo distanti dallo strutturalismo narrativo di Vladimir Propp, che riconosce 31 ricorrenze di situazione drammatiche analizzando il folclore russo, laddove la macchina di Polti ne generava 36. Queste strutture non riguardano solo le fiabe: i più assidui lettori di Propp, ci assicura Tenen, sono stati i progettisti dei Boeing, le cui procedure da attuare in caso di emergenza seguono le funzioni narrative principali elaborate da Propp.
Pensare che la narrazione stia alla base dei dispositivi di emergenza di un aereo può sorprendere, ma solo perché si sottovaluta la sua onnipresenza nella forma di vita della natura umana: che si tratti della gigantesca produzione di Simenon, o di Balzac o di Mozart, delle schede narrative di Nabokov o di Proust, ridotto a una mano che scrive nella sua stanza foderata di sughero, e se dunque l’umano è l’origine della tecnica, ciò che spetta all’umanesimo non è limitarsi a somministrare una – spesso contestabile – saggezza, ma ritrovare nelle sue profondità quella forza propositiva che ha rivelato nella lunga storia raccontata da Tenen in non molte delle sue pagine.
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