Apre le danze Giorgia Meloni. Parla per 25 minuti e non dà soddisfazione alla Elly Schelin che, entrando a palazzo Chigi per l’incontro sul salario minimo, aveva detto: «Andiamo a sentire se il governo ha novità da proporci». La premier invece non fa proposte ma domande e sono quelle già illustrate nel suo video di due giorni fa: «Chi garantisce che il salario minimo non indebolisca la contrattazione collettiva?», «Come si fa a essere certi che così non ci sia un peggioramento per moltissimi lavoratori?». Le risposte non la convincono ma neppure blinda le porte: «La materia è molto complessa e io ho diversi pareri che invece esprimono preoccupazione». Quindi rilancia: «Proviamo ad avviare un percorso celere ma attento per arrivare a una proposta condivisa su lavoro povero e salari bassi coinvolgendo il Cnel».

A SORPRESA, a vertice terminato, dopo che il vicepremier Tajani aveva già commentato l’incontro, anche la premier esce dal palazzo per illustrare la sua proposta: «Ho convocato le opposizioni perché il tema del lavoro povero mi sta estremamente a cuore. Non abbiamo avanzato una nostra proposta perché altrimenti avrebbero detto che volevamo far ritirare quella dell’opposizione. Il salario minimo non mi convince ma soprattutto non basta per risolvere un problema che è molto complesso. Affrontiamolo insieme, anche col Cnel che è già pronto, nei prossimi 60 giorni, prima della legge di bilancio in modo da poter poi disporre delle coperture. Noi arriveremo certamente a presentare la nostra proposta in settembre ma vorrei che non fosse solo nostra ma condivisa».

L’USCITA a sorpresa conferma quello che era già evidente nel vertice: Meloni vuole gestire la vicenda in prima persona. La ministra Calderone, nel corso dell’incontro, è intervenuta ma senza dire nulla di significativo. Salvini, in call, ha parlato appena un paio di minuti per sostenere «la proposta del movimento», quella del sottosegretario leghista Durigon, e pare che la presidente, a sentirgli citare «il movimento» non sia riuscita a non storcere la bocca. Tajani si è essenzialmente difeso dalle critiche piovute sulla proposta targata Fi, avanzate soprattutto da Fratoianni per Avs: «Se c’è una legge che rischia di entrare in contrasto con la contrattazione collettiva è proprio quella azzurra, non il salario minimo». La partita, insomma, è della premier e lo resterà anche a settembre.

LA SENSAZIONE univoca è che però un’idea chiara in mente il capo del governo proprio non ce l’abbia, o almeno non ancora. Quel che le è invece chiarissimo è che non può fare la figura di chi si disinteressa di una questione essenziale per milioni di persone: i salari da fame, il lavoro povero e a volte poverissimo. Non vuole aprire al salario minimo, perché sarebbe una vittoria clamorosa per l’opposizione e non intende concederla. Non può nemmeno mettere un veto e liquidare la proposta come il governo aveva pensato di fare con l’emendamento soppressivo, perché apparirebbe come insensibile al disagio sociale. Non a caso lo stesso Tajani stavolta si è guardato bene dallo sparare affermazioni poco assennate come la natura «sovietica» del salario minimo ed è apparso, pur confermando il suo no, molto più dialogante. Il rinvio a settembre di una discussione complessiva, offerta che l’opposizione nonostante lo scetticismo non può respingere, serve a tenere aperta la faccenda, restituendo però il quadro di un governo che in materia di salario e lavoro è tutt’altro che disattento. Al punto, rivendica Meloni, da convocare le opposizioni per discutere la loro proposta, cosa che effettivamente non è di tutti i giorni e nella politica italiana forse meno che altrove.

MELONI si è dimostrata anche ieri una politica capace, pronta a sparigliare quando si trova con le spalle al muro. Ma al di là della facciata l’incontro di ieri è una vittoria delle opposizioni: meno di due mesi fa il salario minimo era una scocciatura da risolversi in un quarto d’ora con un emendamento-ghigliottina, senza nemmeno passare per l’aula. Ora è uno degli elementi forti della discussione complessiva sul tema del lavoro povero: una proposta di cui il governo continua a dichiararsi poco convinto ma sulla quale non pesa più alcun vero veto.