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Proiezioni della Rivoluzione francese negli esempi degli antichi

Proiezioni della Rivoluzione francese negli esempi degli antichiJacques-Louis David, «Napoleone che valica le Alpi», 1801

Saggi storici Francesco Benigno e Daniele Di Bartolomeo, «Napoleone deve morire», Salerno

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 17 gennaio 2021

Quanto il mito di Roma, della classicità greca, delle rivoluzioni seicentesche e, più in generale, del passato abbia influenzato i rivoluzionari è stato a lungo discusso da generazioni di studiosi, ciascuna delle quali ha ricostruito l’esperienza rivoluzionaria proiettandola sulle esigenze e conflittualità del proprio tempo.
Meno affrontato dalla storiografia, invece, è il condizionamento «in tempo reale» delle scelte dei protagonisti, in una proiezione verso il futuro. A colmare la lacuna, il saggio di Francesco Benigno e Daniele Di Bartolomeo, Napoleone deve morire L’idea di ripetizione storica nella Rivoluzione francese (Salerno editore, pp. 194, € 19,00): per paradossale che possa apparire, la lacuna era presente anche nella storiografia marxista. Fu proprio Karl Marx uno dei pochi (insieme, ci ricordano gli autori, a Chateaubriand) a leggere la Rivoluzione francese come un grande laboratorio dove si rappresentava, a tratti in forma di farsa, la tragedia della storia romana. Forti di questa trascurata intuizione, nell’affrontare le repliche della storia gli autori svelano un fraintendimento comune: i rivoluzionari francesi si sarebbero ispirati ai classici greci e romani per metterli in pratica in un mutato contesto, con conseguenze drammatiche, come il Terrore.

La nascente architettura politica e giuridica si edificava sull’esaltazione e al contempo sulla presa di distanza dal mondo del passato: Atene, Sparta e Roma erano ritenute da alcuni l’infinito archivio cui attingere per pensare il futuro, da altri esperienze incapaci di offrire una regola o di servire da modello. Rivoluzionari e contro-rivoluzionari utilizzano specularmente il mito del legislatore antico come arma politica da contrapporre agli avversari, in un alternarsi di significanti del discorso pubblico rivoluzionario sugli antichi: aristocratici, demagogici e tirannici, in alcuni casi, coraggiosi, audaci e lungimiranti in altri.

Paradigmatiche, nel volume, le pagine dedicate al processo a Luigi XVI che la Convenzione istruisce a partire dalla fine del 1792 e che vede le parti contrapposte dei tirannicidi e di coloro che optavano per una soluzione di clemenza – seppure tutte convinte della colpevolezza del sovrano per «alto tradimento» – ricorrere alle lezioni della storia, alternando richiami a Tarquinio il Superbo, Giulio Cesare, Oliver Cromwell, Carlo I Stuart.
In uno straniante gioco di specchi, stessa sorte toccò alla figura di Robespierre che già nel 1793, nel pieno del suo potere, veniva accostato, dall’ala estrema del movimento sanculotto, a un dittatore romano o, peggio, a un novello Appio Claudio, alla testa di una nuova «inquisizione dittatoriale».

Con il 9 Termidoro e la fine del regime robespierrista, si ricorse di nuovo ampiamente al repertorio della storia classica e del Seicento inglese per giustificare ciò che, pochi mesi prima, sarebbe sembrato impensabile: Robespierre-Cromwell avrebbe voluto trasformare la Francia in un nuovo Impero. Ma fu durante il periodo direttoriale, che si intensificarono, soprattutto nella pamphlettistica militante, i riferimenti al passato e alla onnipresente storia di Roma, che proiettava la sua ombra in una Francia in preda all’anarchia e dove si rivelava la figura, salvifica per alcuni, temibile per altri, di Napoleone Bonaparte.

Proprio al generale, reduce dalla strabiliante campagna d’Italia, sono dedicate le pagine più dense del libro. L’ineffabile abate Sieyès, tornato al centro dei complicati ingranaggi del potere nell’autunno della Rivoluzione, individuò in Napoleone, tornato da un’altra spedizione vittoriosa, quella in Egitto, il candidato ideale per essere «arruolato» in una funzione, agli occhi dell’abate, di secondo piano. Il generale, a sua volta, avendo maturato una ben altra considerazione del suo ruolo nella congiura, così si pronunciò rivolgendosi al Consiglio degli Anziani il 18 brumaio dell’anno VIII: se avessi voluto assurgere al ruolo di Cesare o di Cromwell, lo avrei potuto fare, mentre mi sono «limitato» a rispettare ciò che mi è stato ordinato. Bonaparte tuttavia, come è noto, chiese ed ottenne i pieni poteri, pro- tempore.

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