La sera del’11 giugno 2018 quattromila persone affollarono il Teatro Greco di Siracusa per un evento unico. C’è un abuso evidente oggi, lo sappiamo, della parola «evento»: la parola significa «lo sbalzare fuori di qualcosa», indicando un fatto eccezionale, non ordinario. Quella sera fu un evento vero, un qualcosa che non si sarebbe ripetuto, e che chi c’era conserva nella proprie personali teche della memoria e dell’emozione assieme. Le mani appoggiate sulla schiena della fidata Valentina Alferj, i suoi occhi sostitutivi e la direzione dei suoi passi affaticati da ultranovantenne, saliva sul palco Andrea Camilleri per l’ultimo spettacolo della sua vita: La conversazione su Tiresia. Doppio e specchio, la figura dell’immaginario greco, di Camilleri stesso, l’uomo – indovino che visse sette esistenze, figlio della ninfa Cariclo e di uno dei fondatori di Tebe, Evereo. Chi è stato giovane negli anni Settanta, chi s’è innamorato del rock classico nei decenni successivi, a pochi minuti dall’ingresso sul palco dell’anziano maestro dalla voce catramosa e risonante ha avuto un tuffo al cuore. Lì, nel Teatro Greco siciliano costruito nel V secolo avanti Cristo d’improvviso, a introdurre, commentare e sostenere le parole del Signore di Vigata entra la musica di The Cinema Show dei Genesis, con l’arpeggio trascendentale sulle dodici corde che porta subito in un altro mondo. Sono i Genesis della formazione classica, quelli con Peter Gabriel, quest’ultimo una creatura «mutante» sul palco di quegli anni esattamente come Tiresia. Qui però la scrittura è di Tony Banks e di Mike Rutheford (ispirata alla Terra desolata di T.S. Eliot, peraltro citato anche quest’ultimo come una delle fonti utilizzate da Camilleri per la sua «Conversazione») la voce di Gabriel, che nel brano suona anche oboe e flauto. Nel testo si cita esplicitamente il «padre Tiresia», invitando chi ascolta a «fare un viaggio all’indietro, nel passato» con lui, sia quando il fato gli fece conoscere la realtà maschile, sia quando calcò la terra con sembianze di donna. Mettete assieme tutto quanto citato sino ad ora. Ne risulterà un sorta di glorificazione «ufficiale» del progressive rock ispirato molto spesso dalla mitologia e i suoi topoi letterari nel tempio fisico reale e simbolico al contempo che quella mitologia ha accolto e continua ad accogliere, in una sorta di ciclicità senza fine.

FORZA GENERATRICE
Letteratura, mitologia e progressive rock. Una saldatura sancita e preparata da un lunga serie di accadimenti, di lavori discografici, di scelte personali e collettive. Che andremo a indagare, almeno nei filoni maestri e nei dati di più immediata evidenza, focus dunque su un periodo circoscritto, anche se gli esiti, a voler approfondire la ricerca, arrivano fino ad oggi, sconfinando in molti generi musical diversi, e sin dall’inizio: si pensi a Tales from Brave Ulysses dei Cream, ad Achille’s Last Stand dei Led Zeppelin, a Persephone dei Wishbone Ash. Domani ce ne saranno altri: perché la forza generatrice della prima mitologia riverbera perfino sull’oggi desertificato dai miti e caratterizzato dalla scomparsa dei riti, come ha ben scritto il filosofo Byung-Chul Han. In cambio abbiamo fedi cieche, fondamentalismo e mitologie posticce: che passeranno.
I Genesis di Peter Gabriel non affrontavano per la prima volta i riferimenti mitologici greci con il loro capolavoro Selling England by the Pound. C’erano già passati, per quella via simbolica, diversi anni prima, con Nursery Crime. Del 1971. Un disco che, sotto un’apparente, quasi estenuata dolcezza musicale nasconde, nei testi, tracce di una ferocia quasi maligna. Su Nursery Crime trovate The Fountain of Salmacis, otto minuti incantati e terribili. Salmakìs (Salmace, in traduzione italiana) era una ninfa naiade, quelle ninfe che fornivano il corteggio di venti semidivinità per Artemide, e che dovevano necessariamente vivere vicine all’acqua delle fonti e delle cascate, per non morire rinsecchite. Salmakìs era pigra, vanitosa, poco incline alla disciplina. Un giorno l’adolescente Ermafrodito, figlio di Hermes e Afrodite va a bagnarsi alla sorgente, si spoglia e si immerge. La ninfa si tuffa a propria volta per cercare di possedere quel corpo giovane e perfetto, costringendolo a rimanere immerso e a lei abbracciato. Fa di più: chiede agli dei di fondere assieme i loro corpi, perché restino assieme in eterno, e così scaturisce Ermafrodito come lo conosciamo, un corpo che contiene due sessi, ed eternamente incupito: perché la leggenda vuole che, per maledizione pronunciata dal giovane dai due sessi, ogni uomo che si immerga in quelle acque (oggi a Bodrum in Turchia), acquisisca caratteristiche femminili.

PIGMALIONE E GALATEA
Fortemente mitologica e favolistica è anche sempre stata la musica degli Yes, a partire dalle copertine ultraterrene e fantascientifiche disegnate dal grande Roger Dean. Jon Anderson, storica voce della band progressive (oggi sostituito da un suo clone vocale più giovane, ma certamente ben diverso nella scrittura) ha spesso usato citazioni dalle varie tradizioni mitologiche orientali, ma in un brano il riferimento alla mitologia greca è evidente. Si tratta di Turn of the Century, un brano reperibile in Going for the One, disco del 1977. La canzone è basata sul mito greco di Pigmalione e Galatea, mito rilanciato nella Metamorfosi di Ovidio, esattamente come quello di Ermafrodito. Pigmalione è uno scultore di Cipro deciso a rimanere senza sposa, detestando la prostituzione che vede proliferare. Così scolpisce una perfetta figura femminile in avorio, così bella che se ne innamora, preparando per lei un letto e vari doni. Un giorno, nella festa di Afrodite, chiede alla dea la grazia di avere una sposa con le sembianze della sua figura scolpita. Al ritorno a casa, bacia le labbra della sua creatura scolpita, e scopre, dalla morbidezza delle stesse, che la dea ha esaudito il suo desiderio. A ben vedere, l’archetipo della «statua che prende vita», che avrà un’enorme fortuna in ogni letteratura. Gli Yes rinominano come Roan lo scultore, un uomo disperato per la scomparsa prematura della moglie adorata. Dopo aver ripreso nel dettaglio le fattezze in una statua a lungo rifinita, Roan scopre che la statua ha preso vita per il suo amore.
È esplicitamente tutto dedicato al dio del mare della mitologia greca, a partire dall’incantevole copertina, il secondo e notevole disco dei King Crimson, In the Wake of Poseidon, 1970: cover che rappresenta i dieci archetipi dell’umanità, dal trattato The Purpose of Love di Richard Gardner interpretato dai pennelli del londinese Tammo de Jongh, all’opera in quegli anni anche per Marc Bolan e la Third Ear Band. In the Wake of Poseidon è un lavoro che ha l’unico torto di uscire subito dopo uno degli esordi più folgoranti della storia del rock creativo, In the Court of the Crimson King, del 1969. Complesso e labirintico, il cuore centrale del lavoro è proprio nel brano dedicato al dio del mare greco e agli archetipi junghiani cantato da un immenso Greg Lake, che interpreta le quattro visionarie strofe scritte da Pete Sinfield, testo che inizia con un altro riferimento alla Grecia antica: «Gli occhi freddi e spalancati di Platone che catturano la verità tra ossa e teschi». Non sarà l’ultima volta che la mitologia greca incrocia le piste del poeta (e musicista) Pete Sinfield e dei King Crimson. Ci sarà spazio per un’altra dotta citazione nel testo di Formentera Lady, su Islands, 1971, altro disco a torto considerato minore nella prima produzione crimsoniana: verso il finale si dice «Qui Ulisse cadde vittima del fascino oscuro di Circe/Ancora aleggia il suo profumo e il suo incantesimo». Formentera, peraltro, era nota agli antichi greci navigatori come Ophiussa, l’sola dei serpenti: quando Sinfield vi fa realmente tappa, nei primi Settanta, è ancora l’incantata isola selvaggia dei freak e degli hippie, e scatta immediata la similitudine tra la «signora dell’isola» ammaliatrice e la maga Circe che irretisce Ulisse e trasforma i suoi compagni in porci. C’è chi, addirittura, ha rintracciato nell’evoluzione del pezzo un preciso raccordo col racconto dell’Odissea: l’intervento della soprano Paulina Lucas a riprodurre il canto delle sirene, il sax di Mel Collins che impersonerebbe la voce strozzata di Ulisse legato all’albero della nave per resistere al canto, dopo la fuga dall’isola.

LE FIGLIE DI ZEUS
Manca ancora una terna di grossi calibri del progressive rock classico inglese, in questo percorso mitologico. Impossibile non menzionare il supergruppo che proprio Greg Lake andò a fondare con il tastierista funambolico Keith Emerson e il batterista Carl Palmer staccandosi dai King Crimson: Emerson, Lake & Palmer. Il più celebrato supertrio rock della storia. Il primo album di EL&P con la colomba dipinta in copertina, considerato immediatamente un classico, offre un affondo preciso nella mitologia greca, con una lunga composizione divisa in tre parti, a rappresentare l’operato delle Moire, quelle che Roma chiamò le Parche, e la mitologia norrena Norne. Cloto, Lachesi e Atropo sono figlie di Zeus e Temi (o anche di Ananke, la terribile «dea della necessità» che regna invisibile e superiore a tutto, anche a Zeus e Kronos). Rappresentano l’ineluttabilità del destino degli uomini. Cloto è la moira che regge il filo della vita assegnata agli umani, Lachesi avvolge al fuso la quantità di tempo assegnata a ogni individuo, una inestricabile matassa di gioie e dolori inevitabili, Lachesi («l’inflessibile») recide con un colpo secco il filo nel momento inappellabile della morte. The Three Fates del supertrio è una narrazione in musica incalzante e quasi didascalica del ruolo terribile delle tre parche: Cloto è un maestoso solo sull’organo a canne della Royal Festival Hall, Lachesis un piano solo di Emerson impregnato di dinamiche jazzistiche, Atropos ricompone tutto il trio in un’effervescente cavalcata ritmica.
In un universo di suoni segnato dalle più complesse e stranite costellazioni di riferimenti non poteva mancare un raccordo con la mitologia anche nei Pink Floyd e nei Jethro Tull. È opera della figura più schiva e meno celebrata del rissoso e imprescindibile quartetto di The Dark Side of the Moon, il gentile tastierista Richard Wright, il più preparato musicalmente, scomparso nel 2008. A lui si deve Sysyphus, uno strumentale in quattro grandi partizioni su Ummagumma, il disco del ’69 diviso tra un ellepì riservato a registrazioni «live», e uno di exploit solistici dei singoli membri. Sisifo, nella mitologia greca, è l’eroe che sfida inutilmente Thanatos, la morte, ed è per questo condannato a ripetere in eterno agli inferi uno sforzo inutile: trascinare un enorme masso in cima a un masso, per vederlo poi rotolare via, e ricominciare da capo. Wright qui agisce come EL&P, ricostruendo mimeticamente, nelle dinamiche, nell’agogica e nei timbri, una storia terribile che può essere apprezzata anche senza conoscerne il riferimento mitologico.
I Jethro Tull di Ian Anderson, spesso accostati a mitologie nordiche hanno lasciato traccia di quella greca in un pezzo di clamorosa grazia barocca, a dispetto del titolo, Pan Dance, che farebbe presagire sfrenati eccessi danzerecci e «trance». Per trovarlo dovete far riferimento all’edizione rimasterizzata di Minstrel in the Gallery, del 2002, gran disco uscito in origine nel ’75. Nelle cripte meno conosciute della tarda psichedelia inglese potete trovare un Pan anche ad opera degli Spontaneous Combustion, 1973. Gli ieratici, elegantissimi Renaissance guidati da Anne Haslam ebbero il loro momento mitologico con Midas Man, uscito su Novella, nel 1977, allo scorcio dell’era più creativa del prog rock. Una splendida, compostissima ballad dedicata al celebre mito del re frigio che Dioniso ricompensa per avergli ritrovato il disperso satiro Sileno col dono di tramutare in oro tutto ciò che tocca: in realtà una trappola mortale. Perché Mida tramuterebbe in oro anche il cibo ingerito. Trappola risolta con una supplica al dio (accolta) per tornare ad essere un uomo normale. Mida rinuncerà a ogni ricchezza, diventando un seguace proprio del citato dio Pan, simbolo della natura trionfante. Nei rituali dionisiaci una personificazione semi divinizzata del delirio alcolico sfrenato era il Komos: in inglese diventa Comus, nome di un gruppo assai poco conosciuto, ma nel cuore dei veri appassionati di classic rock.

TRE VOLTE ICARO
E in Grecia, la terra scaturigine della mitologia più amata dal classic rock? Si rischia un elenco infinito di brani. Limitiamoci a citare allora i nomi di due gruppi importanti che recano tracce sostanziose di riferimenti mitologici, a cominciare dai grandi Aphrodite’s Child di Demis Roussos e Vangelis, voce d’angelo il primo, tastierista immaginifico il secondo, i Socrates, che nel loro capolavoro del 1974 ospitarono proprio i tasti avventurosi di Vangelis, gli Ikarus. In Italia la mitologia greca regalò il nome a una delle più brillanti formazioni jazz rock, i Dedalus da Pinerolo, due dischi in bilico tra suggestioni alla Soft Machine e pura ricerca, il nome ripreso dal mitico architetto, inventore e artefice del labirinto di Creta voluto dal re Minosse. Inevitabili i riferimenti alla mitologia per gli Area guidati da Demetrio Stratos, di cultura greca: ne troviamo traccia diretta nello sconvolgente Acrostico in memoria di Laio, il re di Tebe, padre di Edipo destinato ad ucciderlo e a giacere con sua moglie, Giocasta, secondo la crudele profezia dell’oracolo di Delfi. Il tutto su quello splendido canto del cigno che è 1978 gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano!. Nel «solo» sperimentale di Stratos, Cantare la voce, un brano dal titolo che non ha bisogno di spiegazioni, Le sirene. La Germania degli anni Settanta ha trovato copiosa riserva di riferimenti mitologici greci da usare per i nomi dei gruppi che oggi un po’ pacchianamente etichettiamo come «kraut rock», ma troviamo anche un intero disco dedicato al mito: opera degli Eloy, sorta di bizzarri e induriti Pink Floyd tedeschi, che in Ocean, 1977, ripercorrono il mito di Atlantide di cui trattò Platone nel Timeo e in Crizia. Lì titoli come «La creazione di Poseidone» e «Incarnazione del Logos». Atlantis si chiamò peraltro il gruppo tedesco che fece seguito alla bella avventura dei Frumpy, dal ’72 in avanti. Gli Anyone’s Daughter omaggiano invece lo splendido amante di Afrodite, morto tra le sue braccia, Adone, in Adonis, del 1978. Zeus Amusement (il divertimento di Zeus) è il titolo del primo disco solo del tastierista e fiatista Zeus B. Held, ex Birth Control: mitologia già in famiglia, insomma. E ancora: Ikarus, da Amburgo, un solo ellepì del ’71 che prende nome dal figlio di Dedalo l’Artefice, che sfidò il sole con ali di cera e piume, raccordo preciso peraltro con i Minotaurus, un disco nel ’77 già sporto su sonorità new wave, a ricordare la sfortunata creatura rinchiusa nel labirinto cretese. A complicare le cose: Ikarus, nome identico, ma stavolta adottato nel ’79 da un gruppo berlinese, prog rock con decisi accenni folk, alla Jethro Tull. Panorama affollato, insomma, quando il rock classico è un mito. Greco.