Radio, reti tv e quotidiani italiani hanno scoperto il campo profughi palestinese di Yarmouk, così come qualche mese fa scoprirono Kobane e la resistenza del popolo curdo. L’auspicio è che il campo di battaglia in cui è si trasformato Yarmouk spinga non pochi a porsi una domanda fondamentale: ma quei palestinesi cosa ci fanno in Siria? La risposta è semplice e immediata: sono in Siria, in esilio assieme ad altri cinque milioni di profughi palestinesi sparsi tra vari Paesi arabi, Cisgiordania e Gaza, perchè viene loro impedito di tornare nella terra d’origine. Israele non permette e, sottolinea, mai permetterà ai profughi palestinesi del 1948 e ai loro discendenti, di rientrare alle città e ai villaggi dai quali furono cacciati o costretti a fuggire (Nakba) 67 anni fa. Nonostante la risoluzione 194 dell’Onu affermi il loro “diritto al ritorno” oltre ad ottenere un risarcimento economico per i beni e le proprietà perdute. lI loro ritorno, ripetono da sempre i governi di Israele di ogni colore e orientamento politico, minerebbe il carattere ebraico dello Stato e segnerebbe la fine della “funzione” di Israele come porto di approdo per gli ebrei di tutto il mondo. È una posizione in aperto conflitto con il diritto internazionale ma che gode del sostegno dei Paesi occidentali. Così se altri profughi, inclusi i milioni di siriani fuggiti in Giordania, Libano e Siria, sanno che presto o tardi torneranno a casa, i palestinesi la loro terra continueranno a sognarla e a raccontarla ma non a viverla. A Israele nessuno imporrà il rispetto della risoluzione 194.

 

Quanto accade a Yarmouk, diventato un nuovo terreno di conquista per i jihadisti dell’Isis e rimasto per oltre tre anni circondato dall’esercito siriano con al suo interno miliziani (spesso stranieri) di formazioni islamiste schierate contro il presidente Bashar Assad, è solo l’ultima tragedia che colpisce i profughi palestinesi. Il fatto di essere costretti a vivere in altri Paesi, lontani dalla loro terra, troppo spesso soggetti all’ostilità delle popolazioni locali, espone i rifugiati palestinesi al pericolo costante di rimanere coinvolti in conflitti, vendette e ritorsioni con conseguenze catastrofiche. La storia del Medio Oriente in questi ultimi decenni è stata scritta troppe volte con il sangue dei profughi palestinesi. Soprattutto in Libano, dove la loro presenza di fatto fu la causa scatenante di una guerra civile durata 15 anni e ancora oggi genera diffidenza e rabbia in una fetta consistente della popolazione del Paese dei Cedri. Tell al Zaatar e Sabra e Shatila. Nomi di campi profughi che rimarranno scolpiti, per i loro massacri di civili, nella memoria collettiva del popolo palestinese. E sempre in Libano 8 anni fa il campo di Nahr al Bared è stato distrutto quasi interamente da parte dell’artiglieria libanese decisa a stanare i miliziani del gruppo jihadista Fatah al Islam – formato da sauditi, kuwaitiani, libici, libanesi e in misura minore da palestinesi -, un prototipo dello Stato Islamico, che vi aveva stabilito la sua base. Senza tralasciare il “Settembre Nero” in Giordania, nel 1970, quando il re Hussein, deciso a sbarazzarsi della guerriglia dell’Olp che operava dal suo territorio contro Israele, ne approfittò per imporre la linea del pugno di ferro contro i profughi palestinesi.

 

Yarmouk oggi, come Sabra e Shatila, Tell al Zaatar e Nahr al Bared in passato, dicono una verità incontestabile. I profughi della Palestina potranno vivere in sicurezza solo nella loro terra.