Profilazione etnica, una questione democratica
«Ti abbiamo fermato perché pensavamo che tu fossi come gli altri». Gli altri sono gli spacciatori, neri, intorno alla Stazione di Ferrara. A pronunciare la frase è stato un poliziotto rivolgendosi ad un ragazzo fermato al ritorno dalla scuola serale. Perché attraversare una zona di spaccio, per una persona di colore, giustifica da parte della polizia una particolare attenzione. Si tratta di profilazione razziale, ovvero quella pratica che a partire da pregiudizi basati sull’appartenenza, etnica o religiosa, sottopone alcune persone a maggiori controlli.
Se ne è parlato in una conferenza internazionale organizzata all’Università di Ferrara nell’ambito del Progetto Yaya, un progetto sulla profilazione etnica in Italia promosso dal Coordinamento per Yaya e da Occhio ai Media-Cittadini del Mondo di Ferrara, in collaborazione con l’Università Goldsmiths di Londra.
Fra i partecipanti Account Hackney, un gruppo nato nel 2017 dopo l’uccisione da parte della polizia di un giovane inglese di colore nel quartiere londinese di Hackney. Il gruppo, guidato da giovani della zona, si è posto l’obiettivo di monitorare la ricaduta sproporzionata delle attività di stop and search sulla comunità nera. Nel quartiere per i giovani maschi neri la probabilità di essere fermati dalla polizia è 6 volte più alta rispetto ai loro coetanei bianchi, la probabilità che questo avvenga con l’uso della forza è 4 volte maggiore.
Un razzismo istituzionalizzato nelle pratiche di controllo del territorio, che a cascata porta ad una maggiore criminalizzazione di particolari gruppi, e quindi ad una loro abnorme presenza in carcere. A questo si può rispondere solo con la ricerca e l’azione sociale, e con la consapevolezza dei singoli rispetto ai propri diritti e delle comunità su quello che succede nei propri quartieri.
In Italia se ne è incidentalmente parlato l’anno scorso, quando oggetto di attenzione da parte delle forze dell’ordine furono il giocatore del Milan Tiémoué Bakayoko e Joseph Blair, ex cestista di Pesaro e di Milano e allenatore NBA. Nel nostro paese, a differenza di quelli anglosassoni, non esiste ricerca sull’influenza dell’appartenenza etnica rispetto alle pratiche di sicurezza pubblica, anche se le testimonianze pubblicate dal sito del progetto Yaya dimostrano come sia parte della vita nelle nostre città.
In Italia, come del resto nella gran parte dei paesi democratici, la perquisizione senza autorizzazione del giudice è possibile solo in rari casi (sospetto di possesso di armi e di droghe in particolare). E qui il legame con la legislazione sulle droghe è decisivo, come rilevato anche dal report del gruppo di lavoro dell’ONU sulle detenzioni arbitrarie (vedi questa rubrica del 22 dicembre 2021). Lo è perché il consumo di sostanze è diffusissimo nella popolazione (almeno un quarto ha usato droghe nella vita); lo è per l’impostazione criminogena della Jervolino-Vassalli: è sufficiente il possesso di droghe per determinare una qualche conseguenza, amministrativa o penale.
Se aggiungiamo che la legge sull’immigrazione spinge alla marginalità e alla clandestinità, il combinato disposto fra profiling e leggi criminogene diventa letale. Non c’è bisogno di mandato per perquisire; è sufficiente la detenzione per rischiare patente e passaporto; una quantità un po’ superiore alla dose media e avere una pelle scura porta facilmente davanti ad un giudice; con l’inversione di fatto dell’onere della prova nel processo basta una difesa non attenta, qualche contante, un po’ di pellicola trasparente e una bilancia da cucina per essere condannati. Così ogni 10 processi per droghe ci sono 7 condannati, contro i 2 condannati ogni 10 per gli altri reati.
I dati empirici ci dicono che la profilazione etnica è consuetudine anche italiana, è tempo di indagarla e contrastarla.
Il sito del Progetto Yaya: progettoyaya.org
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