Economia

Produzione industriale, crollo in Italia: -7,2%. Peggio solo in pandemia

Produzione industriale, crollo in Italia: -7,2%. Peggio solo in pandemiaUna lavoratrice sulla linea nello stabilimento Stellantis di Melfi – Foto LaPresse

Istat Istat, ad aprile balzo all’indietro sul 2022: non si registrava un calo così dal luglio del 2020. Pesa la recessione in Germania. Nell’auto le nostre aziende dipendono da quelle tedesche Ma c’è anche il fattore energia

Pubblicato più di un anno faEdizione del 10 giugno 2023

Allarme produzione industriale in Italia. Ad aprile, secondo l’Istat, l’indice destagionalizzato (pulito, che indica una tendenza di fondo) ha fatto registrare un -1,9%. Ma non è soltanto un problema «congiunturale» (mese su mese). La serie negativa è anche su base trimestrale e su base annua (tendenziale). Rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, infatti, più che di caduta si deve parlare di vero e proprio crollo: -7,2% (nel periodo febbraio-aprile 2023 la flessione è stata invece dell’1,3%). Mai così male dal luglio del 2020, quando il paese era alle prese con la cosiddetta «fase due» della pandemia da Covid-19 (allora il calo era stato dell’8,3%).

NON SI SALVA NESSUN SETTORE. «Le diminuzioni – si legge nel comunicato dell’Istituto di statistica – sono estese a tutti i comparti». I più colpiti, tuttavia, sono i comparti dell’energia (-12,6%) e dei beni intermedi (componentistica, semilavorati, – 11%). Quelli, a ben vedere, che non rientrano nel calcolo del pil (la misura dei beni e dei servizi «finali» prodotti in determinato lasso di tempo), ma ci legano indissolubilmente alla grande «manifattura allargata tedesca». Si calcola che la componentistica italiana pesi per il 30-40% sul valore «finale» delle principali auto tedesche (per le Opel si arriva addirittura al 60-70%). Si va dai motori elettrici montati sulle Porsche e dai fari delle Audi (Marelli) ai freni delle Bmw (Brembo), agli ammortizzatori di sterzo delle Volkswagen (Cultraro). Senza l’Italia, insomma, i tedeschi non potrebbero fare le loro macchine. Ma il rovescio della medaglia non è meno minaccioso: se la Germania va in sofferenza, tutte le «catene del valore» europee riferite all’industria tedesca ne risentono. Ed è quello che sta succedendo (la Germania, oltretutto, da maggio è in «recessione tecnica»). Non a caso, insieme all’Italia, va in affanno la Spagna, che come noi è fortemente inserita nella filiera produttiva che conduce a Berlino.

I PROBLEMI DELL’INDUSTRIA tedesca non sono recentissimi. Ma la guerra in Ucraina ha fatto da acceleratore della crisi. Materie prime, energia, mercati. In pochi mesi è stato stravolto un assetto economico e produttivo – germanocentrico e agganciato alle fonti energetiche russe – costruito nel corso di decenni. I nostri guai hanno solo radici tedesche, quindi? No, ci sono anche problemi nostri, interni. Ma molti di questi hanno le stesse radici dei problemi tedeschi. Guardando ai settori più colpiti, d’altra parte, si nota subito che alla base dello schianto c’è innanzitutto l’approvvigionamento energetico. Sono i cosiddetti settori energivori a pagare il prezzo più alto.

PATIAMO PER I TEDESCHI, ma anche come i tedeschi, insomma. E come gran parte dei paesi europei. A marzo, infatti, era stato rilevato un calo della produzione industriale del 3,6% in tutta l’Unione. Per tutti, il problema principale si chiama energia e materie prime. Ciò che sta minando alla radice la competitività dell’industria europea. Non è indifferente che il gas naturale costi attualmente sei volte di più in Europa che negli Stati Uniti. Secondo un recente studio dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), i prezzi alla produzione delle industrie europee è aumentato nell’ultimo periodo del 42%, mentre quello delle aziende americane dell’8,5%. La ragione per cui molte società del continente, soprattutto tedesche, hanno deciso di trasferirsi all’estero, e negli Usa principalmente (Washington è insidiosa anche per i sussidi alle proprie imprese). C’è un rischio reale di deindustrializzazione per l’Europa. Anche l’Ue ne è consapevole. Ma al momento non sembra che abbia chiaro come scongiurare questa evenienza.

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