«Quello che sta accadendo lo trovo lunare». Il pm di Milano Paolo Storari parla come testimone assistito connesso al processo che vede imputato Piercamillo Davigo per il caso dei verbali di Pietro Amara sulla presunta esistenza della loggia Ungheria. I toni della testimonianza sono stati quasi melodrammatici, con tanto di singhiozzi e pianti da parte di Storari («Si tranquillizzi», gli ha detto a un certo punto il presidente del collegio Roberto Spanò), rivendicazioni del lavoro svolto e moti d’orgoglio: «Ricordare quello che ho passato mi dà fastidio, non potevo fare nulla da solo».

La versione di Storari è sempre la stessa, già dichiarata più volte in pubblico e base anche della memoria difensiva che ha portato alla sua assoluzione in abbreviato per rivelazione di segreto d’ufficio (stesso reato contestato a Davigo): lui avrebbe sollecitato più volte i suoi colleghi ad indagare sulle dichiarazioni di Amara ma trovando sempre da parte di Francesco Greco e Laura Pedio – titolare insieme a lui del fascicolo – «un muro di gomma» che non è mai riuscito a scalare. Il motivo, almeno per Storari, è chiarissimo: «Non si è fatto niente perché non si voleva disturbare il processo Eni-Nigeria, il processo più importante di Milano, fatto dal dipartimento più discusso, una sconfitta significava mettere in dubbio l’intera organizzazione della procura». Il caso, gestito dal dipartimento affari internazionali dell’aggiunto Fabio De Pasquale (uno che «fa solo processi di serie A»), riguardava una presunta maxi tangente da un miliardo di dollari (quattro volte la tangente Enimont, tanto per dare un’idea) per il blocco petrolifero africano Opl-245 ed è finito con l’assoluzione di tutti gli imputati perché il fatto non sussiste. La stasi giudiziaria che avrebbe portato a sottovalutare le parole di Amara sarebbe durata per Storari dal dicembre 2019 al gennaio 2021. Questa tesi dell’inerzia, però, a onor di cronaca, non ha trovato veri sviluppi dal momento che la posizione dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco, indagato a Brescia per rifiuto d’atti d’ufficio, è stata archiviata per «radicale infondatezza della notizia di reato» e per «evidente insussistenza del fatto ipotizzato».

È per questo, comunque, che i verbali di Amara sarebbero finiti nelle mani di Davigo, un’azione di autotutela, per così dire. «Per me era stato avvertito il Csm – ha spiegato Storari -, sono andato da Davigo perché trovavo del tutto normale farlo». Il problema è che, dopo la consegna della chiavetta con i verbali, Davigo avrebbe abusato delle sue qualità e sarebbe venuto meno ai doveri legati alle sue funzioni diffondendo i documenti o parlandone in lungo e in largo: dal vicepresidente del Csm David Ermini al pg della Cassazione Giovanni Salvi, passando per il presidente dell’Antimafia Nicola Morra (M5S), in un giro che ha portato le carte fino alla redazione di due giornali e al magistrato Nino Di Matteo. Un pastrocchio che si inserisce nel cuore della guerra ormai conclamata tra procuratori e che a Milano ha portato a un clima pesantissimo fatto di sospetti e reciproche accuse: non è un caso che tra le parti civili nel processo a Davigo ci sia anche il membro del Csm Sebastiano Ardita, che Storari ha trattato con sufficienza nella sua testimonianza: «Non ho mai parlato di lui, per me era un signor nessuno».

La prossima udienza, l’ultima prima delle vacanze estive, si terrà il 7 luglio. Saranno ascoltati alcuni consiglieri (Giuseppe Cascini, Giuseppe Marra e Ilaria Pepe) e il vicepresidente del Csm Ermini.