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Privacy delle mie brame

Il rinnovato successo delle repliche, infinite, dei film di James Bond significa pure qualcosa. Quando 007 comparve con tutta la sua forza glamour prefigurante interi filoni e generi, lo scenario […]

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 29 giugno 2016

Il rinnovato successo delle repliche, infinite, dei film di James Bond significa pure qualcosa. Quando 007 comparve con tutta la sua forza glamour prefigurante interi filoni e generi, lo scenario del mondo era proprio lontano ere geologiche: la guerra fredda, la vita avventurosa delle spie, l’incombenza delle enormi macchine dei calcolatori. Ora il ritorno sembra un garbato brand pubblicitario gigantesche sequenze di dati che animano l’economia digitale. I Big Data registrati e depositati dai e nei grandi aggregatori – quelli di mercato come Google, Apple, Facebook, Amazon, le agenzie di marketing; quelli delle diverse centrali dei servizi segreti (Snowden docet) ufficiali o ufficiose che siano – giacciono nel cloud pronti ad essere utilizzati. Il «datagate» è immanente, è l’altra faccia della bulimia delle tecniche applicate al riconoscimento delle persone. «Per questo è realistico sostenere che nel nostro tempo la protezione dei dati sta alla società digitale come le garanzie dei lavoratori e le preoccupazioni per l’ambiente sono state rispetto allo sviluppo industriale del secolo scorso». E’ uno dei passi più felici della bella relazione annuale del «Garante per la protezione dei dati personali» Antonello Soro, presentata ieri al senato e introdotta dal presidente Grasso.

Un nuovo Regolamento europeo varato a maggio offre la cornice di un’iniziativa tenace dell’Autorità italiana, che si sviluppa sulle fondamenta solide del primo Garante, Stefano Rodotà. Le culture in materia sono in profonda trasformazione, essendo passata la tutela della riservatezza da affare privato a vero e proprio diritto al contrasto del «sesto potere» (Bauman, Lyon, 2013) esercitato dai proprietari dei lucchetti del sapere e delle alchimie degli algoritmi. Ed eccoci, ad esempio, di fronte all’uso improprio legittimato dal Jobs Act dei controlli a distanza dei dipendenti (su cui il Garante era già intervenuto, inascoltato dal governo). Oppure, la questione delicatissima della salute dove la vulnerabilità tocca uno squisito indisponibile scrigno dei cittadini. O, ancora, la particolare attenzione da avere per i minori. O la sapiente bilancia tra trasparenza e privacy laddove si tratti del circuito mediatico: punto di estrema importanza per l’oggi e per il domani, investiti da una quantità di fonti informative tale da interpellare chi vi opera. La libertà di comunicazione è laicamente sacra, come lo è l’etica delle notizie.

Tuttavia, il rapporto 2015 offre anche uno spaccato sulla componente dark della rete: il cybercrime, che ha un peso sull’economia mondiale di 500 miliardi di euro all’anno, poco meno del narcotraffico. L’Italia l’anno scorso ha avuto un incremento del 30% dei crimini informatici, in particolare nel settore delle imprese. Ma l’insidia riguarda l’identità personale, ora che lo «Spid» (il sistema pubblico di identità digitale che fornisce l’accesso alla pubblica amministrazione) è entrato in scena con il suo codazzo di password, croce e delizia del tempo post-moderno. Un accenno si legge nel discorso di Soro alla piaga delle telefonate promozionali, il volto casereccio e asfissiante del periodo d’oro delle liberalizzazioni.

Il campo d’azione del Garante (nel 2015 692 provvedimenti, 1696 sanzioni contestate, 5000 risposte a quesiti, 303 ispezioni svolte con l’ausilio della Guardia di finanza) è destinato a dilatarsi, in ragione delle ulteriori funzioni assegnate dal nuovo quadro giuridico europeo. Certo, la «Brexit» complica le cose. Nel pendolo, è il momento degli «apocalittici».

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