La prima giornata della legislatura a Montecitorio dovrebbe scorrere senza traumi. Un occhio a Palazzo Madama, dove la maggioranza di centrodestra è attesa al varco, l’altro alle tre votazioni previste per la giornata in attesa di scollinare verso la maggioranza semplice.

A quel punto, la Lega è pronta a piazzare il suo candidato. Tutti gli sguardi sono puntati su Riccardo Molinari, capogruppo uscente di osservanza salviniana. Il quale però è serioso, quasi livido: ad ogni chiama si mette in coda per imbucare le sue schede biance nell’urna senza rispondere alle pacche sulle spalle che gli assestano i colleghi. A fine giornata si capirà il perché.

INTORNO A LUI si dispongono spontaneamente, negli spazi dell’aula diventata improvvisamente troppo larga e che è ancora in attesa che i gruppi si formalizzino, i quattrocento eletti che si apprestano a cominciare l’avventura parlamentare.

Alla destra dell’emiciclo il gruppo di Fratelli d’Italia si raduna attorno a Giorgia Meloni, che confabula con il fido Francesco Lollobrigida e poi si sposta verso il centro per intrattenersi con Antonio Tajani: probabilmente cominciano ad arrivare i segnali degli scricchiolii che si paleseranno al Senato.

La cinquantina di deputati del Movimento 5 Stelle, molti dei quali al debutto, si piazzano tra il centro e le sinistre, più a destra del gruppo del Partito democratico.

GIUSEPPE CONTE resta ancorato allo scranno per tutta la mattina. Riceve i parlamentari, stringe mani, si confida coi vice Michele Gubitosa e Riccardo Ricciardi, consulta la nuova arrivata Chiara Appendino. Riceve anche la visita del novello deputato Nicola Zingaretti, colui il quale (era l’altra legislatura ma sembra un’era politica fa) l’aveva battezzato «fortissimo riferimento dei progressisti».

Conte fa sapere che il M5S ha già depositato progetti di legge che contengono un vasto programma: «Dalle misure contro il caro-bollette al salario minimo – scandisce – Dalla lotta alla mafia fino alla transizione ecologica e alla difesa della sanità pubblica».

Marco Sarracino, trentatreenne nuovo arrivato del Pd, in campagna elettorale era stato attaccato per aver ricordato anni fa via Tweet l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Si avventura col cronista in una previsione di scenario: «Questa è una legislatura in cui tornerà netta la distinzione tra destra e sinistra».

ED ECCOLO, il lato sinistro: ci sono gli eletti nel Pd di Articolo 1 che salutano calorosamente l’ex vicepresidente della Camera di FdI Fabio Rampelli, si accomodano i rossoverdi.

Non ci sono, assenti giustificati causa Covid, Nicola Fratoianni ed Elisabetta Piccolotti di Sinistra Italiana. C’è Aboubakar Soumahoro, il quale si presenta fin dentro ai tappeti amaranto del transatlantico con le galosce infangate dei lavoratori della terra e dei braccianti migranti. Il mondo dal quale proviene.

Mentre diversi neo-eletti spaesati chiedono scatti di fronte all’ingresso di Montecitorio, Soumahoro si fa fotografare al centro della piazza con il pugno destro alzato.

IN SERATA, dopo un vertice con Meloni, Matteo Salvini fa sapere che il nome indicato dalla Lega è Lorenzo Fontana, già ministro della famiglia e poi degli affari europei.

«Ho chiesto a Riccardo Molinari la disponibilità a proseguire il suo mandato da capogruppo della Lega a Montecitorio, nonostante avesse tutte le carte in regola per fare il Presidente della Camera» spiega Salvini.

Il passo indietro sarebbe dovuto anche a questini di opportunità: il 24 novembre prossimo è prevista la prima udienza del processo a suo carico: è accusato di aver compiuto delle irregolarità nel 2020, in occasione della presentazione della lista della Lega per l’elezione del sindaco di Moncalieri.

PALLOTTOLIERE alla mano, se domani alla Camera Forza Italia non dovesse votare come fatto oggi al Senato, non ci sarebbe la maggioranza per eleggere il presidente a Montecitorio.

La maggioranza richiesta è a quota 237, senza i 45 di Forza Italia e in mancanza del soccorso della palude centrista che si è andata coagulando al Senato, si fermerebbe a 192. Quando viene chiesto a Paolo Barelli, capogruppo uscente di Fi, se sarebbero disposti a votare Fontana lui risponde con una certa freddezza: «Ritengo di sì».

È ancora più esplicito l’ex sindaco di Pavia Alessandro Cattaneo, berlusconiano «moderato» per antonomasia. Il suo sì è polemico, passivo-aggressivo: serve a ribadire una distanza dal resto della maggioranza. «Non è un problema di nomi. Noi non personalizziamo e non mettiamo veti. Noi».

Benvenuti nella diciannovesima legislatura, non è affatto detto che i colpi di scena finiscano qui.