La tenacia dei papaveri che corrono lungo i binari, la carnosità di alcuni fiori e quelli recisi dentro ai vasi. Primarosa Cesarini Sforza ricama, disegna e ricorda le presenza boschive e campestri della sua infanzia, quando con le sue sorelle passava gli eterni mesi estivi nella poverissima Tuscia di allora, a piedi scalzi, razzolando per prati non addomesticati e per il paese, sotto l’occhio vigile di una tata-contadina, mangiando e dormendo secondo i propri ritmi. Anche quando lo scenario cambiava, alle Eolie, luogo selvaggio senza acqua né luce, la libertà gorgogliava dal mare, uscendo in barca con un padre che insegnava l’avventura dando fiducia. Gli animali, sillabario visivo primario di Cesarini Sforza, sono soggetti prediletti per via di condivisione e stretta vicinanza, anche fisica. «Poi arrivò l’America: la natura soggiogava, stavamo in mezzo alla neve alta due metri e mezzo. Io mi adattavo, trovavo sempre qualcosa di interessante. O erano le persone intorno o i paesaggi».

Pur senza ammantare di una vena romantica l’infanzia felice o l’esperienza statunitense della gioventù, l’artista (nata a Bologna, lavora a Roma dove risiede) sa che quelle lunghe ore pomeridiane della stagione rovente e luminosa hanno impresso una traccia profonda in lei, in grado di riaffiorare sotto forma di brani narrativi, a intervalli intermittenti.

L’antologica La materia e il perimetro, presso il Casino dei Principi di Villa Torlonia, a cura di Michela Becchis ( fino al 2 luglio, promossa da Roma Culture, Sovrintendenza capitolina ai beni culturali, organizzazione di Zètema Progetto cultura, con la collaborazione di KmStudio e TraLeVolte), attraverso installazioni, disegni, dipinti, ceramiche, libri, dimostra proprio quel girovagare fra i margini delle cose, per assegnare alla memoria un valore testimoniale, mai nostalgico o di evasione fiabesca – sebbene possa sembrare, a volte, il contrario. Non è un caso che il titolo scelto dalla curatrice della mostra racchiuda fra due parole, apparentemente antitetiche, un corpus impressionante di lavori. Da un lato, c’è la materia da scomporre, domare, reinventare, far esplodere; dall’altro, quel perimetro che riconduce sulla strada del logos, ravvivando in un discorso intessuto di frammenti ciò che per sua vocazione tende a debordare, deviare, fuoriuscire dai confini.

Primarosa Cesarini Sforza al Casino dei principi davanti le sue opere

Così, a più riprese, tornano le lepri che fuggono veloci, la sagoma della bambina osservatrice, le foglie che si arrampicano testarde, le case filate e sfilate di villaggi immaginari, le improvvise finestre di cielo, il mare con i suoi pesci argentei che si «spiaggiano» in pagine di libri meravigliosi, gli uccelli in volo. «Mi affascinano perché li vedi sempre da lontano ma incantano con il loro suono. Come le sirene, possiedono un lato misterioso». Anche i paesi arabi – molto vissuti da Primarosa – toccano corde profonde, ancora una volta per i loro suoni e richiami, come il muezzin. «Fin da bambina, avevo una sensibilità per il colore, venivo colpita da un’ombra, da un segno per strada, fatto con il gesso o il coccio. Ero curiosa di tutto, non mi impressionava niente, neanche assistere all’uccisione degli animali in campagna; anzi, volevo vedere come erano fatti dentro, li studiavo, sprigionavano un potente fascino. Come i santi, che riposano sotto gli altari, spesso con il corpo martirizzato».

Da piccola, Primarosa Cesarini Sforza recuperava ovunque i pacchetti delle sigarette e li collezionava. Era la forma, la «scatola», quel perfetto contenitore di ignoto – un po’ come la natura, mai prevedibile – ad attirare la sua attenzione. E a stimolare l’impulso a dare ordine al caos, costellandolo di minuscole apparizioni affettive, riconoscibili come una punteggiatura, uno spartito musicale, i versi di una poesia. Quella sua cartografia passionale, nel corso di cinquant’anni di attività, costituirà sempre il seme germogliante, la «matrice» che ogni volta si rianimerà con spirito nomade e sperimentatore, in linea, d’altronde, con una famiglia immersa nei colori, la creta, i marmi: oltre alla sua cerchia di origine, ci sono infatti i Canevari e i Cascella.

«Papà era un collezionista, i fratelli di mia madre erano artisti, con i loro atelier a via Margutta. Zia Anna Maria (che aveva sposato Pietro Cascella), ci portava, tutti noi cugini, allo studio dove facevamo mosaico: quando aveva le grandi commissioni ci metteva a ’incollare’. A scuola ho scelto mosaico, ero l’allieva prediletta di Michelangelo Conte. Da adolescente lavoravo, avevo uno studio con un amico, disegnavamo manifesti, abbiamo affrescato uno stabilimento a Fregene. Viaggiavo per andare a vedere le mostre, dipingevo i quadri per l’hotel Raphaël: me li pagavano 2.500 lire l’uno».

Poi, è arrivato il trasferimento americano (padre giornalista e corrispondente), il mondo incandescente degli anni ’60 e ’70, un primo matrimonio con uno scultore, i figli, le gallerie, la mostra di disegni con Nancy Spero. «Assorbivo tutto, ero come una spugna, circolava un’energia incredibile. Poi New York d’improvviso cambiò, diventò dura, pericolosa, sporchissima. «Ho vacillato per la tristezza, sono tornata in Italia. Ero aggrappata alla vita, piena di responsabilità ma non ho mollato, volevo lavorare e ho continuato. Ho divorziato, fatto mille mestieri (la libertà si paga) e ho insegnato nei laboratori ai bambini per quarant’anni. Nelle opere degli anni 80, tutto questo traspare».

«Qualsiasi cosa nella mia vita è una ricerca di controllo, un tentativo di rendere famigliare ciò che non conosco. Il mio lavoro può contare su un alfabeto che è sempre lo stesso, io sono sempre la stessa persona però si rimodula in continuazione». Il non finito è un’altra cifra significativa nell’arte di Primarosa Cesarini Sforza. «C’è sempre qualcosa che non riesco a cogliere, a portare a compimento come avrei voluto, non amo ciò che è finito». Stoffe, scampoli, aghi, fili. Il filo, che attraversa molte sue opere, non è però considerato un materiale volatile, «come la carta non è fragile. Ha una sua tenacia che somiglia a noi donne, ci lega tenendoci insieme. Con noi stesse».