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Prigionieri in patria

Prigionieri in patriaDonna rom nel campo di Tufine – Vincenzo Mattei

Reportage Viaggio in Albania, per parlare con i rom e fotografare la loro vita nei campi di Tufine e Autotraktor, che stanno per essere spazzati via da arterie d'asfalto

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 9 luglio 2016

Il volto scavato dalle rughe, consunto dal tempo e dalla fisionomia etnica, il sorriso che spacca ancora di più il visto e mostra denti d’oro o di metallo, la pelle scura come bruciata dal sole. Sono solo alcune delle immagini delle donne rom albanesi, un carattere duro ma che sembra canzonare l’osservatore.

«Zingari» è una parola che non vogliono sentirsi dire, ha un connotato razzista e sprezzante che porta con sé secoli di odio e di stereotipi tutti virati al negativo. Anche oggi tale sentimento continua imperterrito in tutte le parti del mondo, e in Albania non è da meno.

Vite sostenibili?

Qui il governo centrale e quello locale di Tirana vogliono correre il più velocemente possibile per saltare sul «magnifico» carro dell’Ue capitalista costruendo mega autostrade che collegheranno la capitale con Pristina, Zagabria e Belgrado. Ma le grandi arterie di asfalto sono destinate a passare proprio su due campi rom, quello di Tufine e quello di Autotraktor.

Il primo è incastrato ai piedi delle montagne a nord-est di Tirana, in un ex campo militare del vecchio regime comunista ormai dismesso, dove le persone sono stipate in piccoli alloggi con l’uso di cucina e bagni in comune, con larga pace della privacy e dell’intimità personale o famigliare.

Fino all’ottobre del 2013 i rom di Tufine vivevano nel quartiere centrale di Tirana di Vasil Shanto per poi essere rilocati per un vasto programma di costruzioni di ammodernamento della capitale albanese. Poco importava che vivessero in case di mattoni e non in fatiscenti rulotte o in una tendopoli. E poco importa se, come sempre, il tessuto sociale e urbano di una città venga stravolto, il progresso e l’adesione alla Comunità Europea devono andare avanti strappando il tessuto sociale e urbano che formano l’inconscio e l’anima della metropoli.

Così il dislocamento verso la periferia ha contribuito ad aggravare la già precaria condizione di sostentamento della comunità. Infatti la maggior parte dei rom effettua la raccolta dei rifiuti per poi rivenderli alle industrie di riciclaggio. Prima dello spostamento molti vivevano e lavoravano nel quartiere di Vasil Shanto e praticavano la loro attività senza grandi spostamenti, lavorando direttamente in loco, invece ora si vedono costretti a viaggiare in bus o in motocicletta, per chi può permetterselo, per raggiungere le mète di lavoro sparse in tutti i quartieri di Tirana.

A niente sono valsi i vari flash mob e le manifestazioni a piazza Skanderbeg o davanti al municipio della città per chiedere migliori condizioni e un «ritorno alla normalità», cioè un ritorno a un habitat urbano che li veda protagonisti della propria vita in modo sostenibile.

Requisiti mancati

Xheladin Taco fa parte dell’organizzazione che si adopera per la protezione dei diritti dei rom ed è il responsabile del campo di Tufine. «Le autorità comunali e anche il ministro dell’interno ci hanno dato la luce verde per l’assegnazione delle case sociali ai rom. Per la nostra comunità la priorità va a tutti quei rom che ancora vivono in città e che ancora non hanno avuto una rilocazione che costituisce il primo passo per ottenere una casa vera e propria».

Infatti, secondo Taco, i rom di Tufine (circa 2000 persone) sono già fortunati perché hanno avuto la possibilità di essere «rilocati», poi in un futuro (non ancora delineato) verrà assegnata loro una nuova sistemazione. Taco ha fiducia nelle istituzioni, è convinto che, alla fine, le famiglie avranno una vera e propria casa, forse si sente sicuro della forza che può avere la federazione dei rom (Ushten), che comprende quattordici organizzazioni, e uno dei requisiti fondamentali richiesti da Bruxelles per aderire all’Unione è proprio il rispetto dei diritti dei rom (insieme all’abbattimento della corruzione).

 

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Fidanzamento ufficiale nel Campo di Tufine, foto di Vincenzo Mattei

 

La priorità secondo Brisilda Taco, figlia di Xheladin e attivista dentro il movimento rom Ushten, è quella di dare alloggi a coloro che ancora vivono in strada, a parte quelli che si trovano nel quartiere Vasil Shanto, sebbene Brisilda tema che saranno a loro volta forzati a lasciare le loro case per l’espansione edilizia della capitale.

«Il ministro Veliaj nell’aprile del 2014 aveva promesso che sarebbe stata trovata una sistemazione per i rom di Tufine, ma da allora solo meno di dieci famiglie sono state sistemate. Secondo il ministero, i rom non soddisfano i requisiti per l’assegnazione dell’alloggio», afferma Brisilda, che inoltre spiega quale è la situazione delle famiglie: «È difficile trovare lavoro, molti bambini non riescono a frequentare la scuola perché devono aiutare i padri, il resto degli albanesi ci discrimina perché siamo rom e poveri. Molti di noi raccolgono l’immondizia perché non ci danno altro lavoro o ci viene negato solo perché siamo di un’altra etnia».

Nel campo di Tufine

A Tufine, c’è molta preoccupazione e rassegnazione per la piega (non bella) che sta prendendo il processo di assegnazione delle case.

Olsi Sherifi, uno degli abitanti del campo, teme, come molti altri, che le autorità li trasferiscano da un’altra parte senza un vero piano. Secondo Sherifi, il governo non prende sul serio il problema dei rom, i quali si ritroveranno presto in strada.

Migena Maksutu vive con il figlio e il marito nel piccolo alloggio assegnatole a Tufine. È riuscita ad arredarlo come se fosse un normale appartamento, spiazzando l’immaginario negativo che nella visione borghese identifica il rom. «Sono molto contenta di essere qua, ho risparmiato per sei mesi prima di poter comprare il divano. Certo, mi piacerebbe avere una cucina tutta mia e spero nelle promesse del governo. Anche mio figlio Franco è felice di stare qui, quando abbiamo messo il divano era contento perché diceva che avevamo la «casa» più bella del «quartiere». Franco va a scuola, fa la prima elementare. «Anch’io avrei voluto studiare, per questo voglio dargli una possibilità in più nella vita. Adesso faccio la parrucchiera, ho il diploma, ho anche lavorato per alcuni parrucchieri in città», afferma orgogliosa.

Migena sta aspettando un bambino, spera che sia femmina, ma afferma decisa: «Non ne voglio altri, meglio pochi che lasciarli senza vestiti da indossare. Il marito è venditore ambulante di abiti usati e gira per la città con il suo carretto motorizzato a tre ruote, Migena è convinta che prima o poi avrà la casa dei suoi sogni assegnatale. Come questa ci sono altre situazioni simili a Tufine.

Samet invece è molto più arrabbiato e meno ottimista. Dal suo punto di vista sono destinati a rimanere nella loro condizione per molto tempo, non ha fiducia nelle istituzioni. «La Ue ha sovvenzionato il governo perché trovasse una soluzione, ma sono convinto che i soldi sono rimasti nelle tasche dei politici e a noi sono rimaste solo le briciole. C’è disinformazione e noi siamo l’ultima ruota del carro.

Se fosse per me resterei volentieri a Tufine, ma forse ci troveranno una sistemazione provvisoria da qualche altra parte. Due anni qua, tre di là … questa è la nostra vita, che ci vuoi fare», afferma disilluso Samet. Parla apertamente, perché quando ci sono quelli dell’amministrazione locale gli impongono implicitamente di non parlare male della loro situazione.

Samet illustra come riesce a sbarcare il lunario: «Raccogliamo la plastica per portarla al riciclo, o meglio, la portiamo alla fabbrica che ci paga 30 lek al kg. Lavoriamo 12 ore, dalle 4 del mattino per raccimolare circa 500 lek (circa 3,5 euro)», quando sente parlare dell’aiuto dello Stato è lapidario: «Se non lavori con le tue mani muori!». Alla domanda se i bambini vanno a scuola, la sua risposta è ancora più scoraggiante: «Il 90% dei ragazzini non può vestirsi come dovrebbe. E poi, cosa dovrebbe mangiare per andare a scuola? Un bambino può presentarsi senza un libro?».

 

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Campo di Autotraktor, foto di Vincenzo Mattei

 

 

 

Nel campo di Autotraktor

Orchida Trisa fa da guida nel campo rom di Autotraktor a nord-ovest della capitale, senza lei sarebbe impensabile entrare. La situazione è molto più disperata rispetto a Tufine: non c’è acqua corrente né elettricità, le strutture sono delle vere e proprie baracche di legno assemblate con altri materiali riusati all’occorrenza (pannelli di plastica, ampi teli di yuta …). Le stufe in ghisa la fanno da padrone per affrontare il lungo e freddo inverno dei Balcani, coperte ammassate le une sulle altre e biancheria stesa sulle staccionate all’aperto.

La distrazione per giovani e meno giovani è un tavolo da biliardo posizionato sotto un telone di plastica. I bambini trovano sempre un modo per divertirsi come correre dietro ad una palla di pezza. Sorridono spensieratamente anche se nella maggior parte dei casi sono costretti a lavorare e, come accade in molte capitali del secondo e terzo mondo, raccolgono e separano immondizia.

Susana Mimiti mostra orgogliosa l’interno della sua sistemazione: gli oggetti di tutta una vita stipati su un mobile a scaffali, la lacca per i capelli, un bicchiere d’acqua mezzo vuoto, i vari servizi di tazzine da té, lo specchio che taglia in due la stanza e i merletti che circondano il letto matrimoniale. La bendana rossa sulla testa e la maglietta a righe nere e verdi le conferiscono un aspetto da combattente per le varie battaglie che ha affrontato. Sorride a labbra strette per non mostrare il vuoto dei denti mancanti, ma quando è fuori con gli altri si lascia andare a sorrisi ed abbracci calorosi. Anche lei ha paura di essere rilocata in altri posti che non siano quelli definitivi, di doversi caricare nuovamente la sua vita sulle spalle e traslocare in un altro posto temporaneo per una precarietà che le divora il volto.

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Migena Maksutu nella stanza assegnatale nel Campo di Tufine, foto di Vincenzo Mattei

 

Il veleno della corruzione

Adiacente al campo di Autotraktor c’è un complesso di palazzine costruite recentemente ma ancora vuote, con i vetri dei supposti negozi a pian terreno in frantumi, e molti rom si domandano perché non vengano assegnate a loro. La speculazione edilizia in Albania è uno dei traini dell’economia, sebbene il tasso della corruzione sia uno dei più alti d’Europa e non si ottiene nessuna autorizzazione per costruire senza corrompere qualche funzionario (secondo la Treccani, 2014, l’Albania si colloca al 110° nella classifica mondiale per «Transparency International»).

Negli ultimi due anni le famiglie rom a Tirana che hanno avuto assegnata una nuova casa sono state pochissime secondo la Taco. Senza un luogo dove poter iniziare, dare stabilità e un lavoro è difficile intravedere un futuro diverso per i «rifugiati» rom albanesi, prigionieri in patria di un destino che li vede vittime da secoli. Eppure è strano,in un paese dove il primo ministro, Edi Rama, era un artista che, una volta divenuto sindaco di Tirana (carica che ha ricoperto dal 2000 al 2011), ha cambiato il volto della capitale rivoluzionando l’aspetto austero di stampo sovietico degli edifici della capitale dipingendoli con colori e figure stravaganti.

Forse proprio il governo centrale di Rama potrebbe intervenire in maniera più energica per aiutare i rom del paese garantendo un maggior rispetto delle etnie minoritarie. Il compito sembra alquanto arduo, proprio per la difficoltà a scardinare quei meccanismi di corruzione profonda, di collusione con la politica, di criminalità organizzata e non che prevede vendette di sangue (legge del Kanun) e che affossa il paese.

Forse ha ragione Samet di Tufine: «Due anni qua, tre di là … questa è la nostra vita» … per un nomadismo che sembra più un’imposizione che un aspetto della tradizione rom.

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