I dati ufficiali della Commissione elettorale birmana non sono ancora definitivi. Ma lo spoglio è più che sufficiente alla Lega nazionale per la democrazia (Lnd) per dichiararsi la vincitrice della prima elezione del Myanmar che si sia svolta sotto un governo civile.

Si sa già anche che la Lega, il partito di Aung San Suu Kyi, ha ampiamente superato i 322 seggi necessari, nelle due Camere, per formare un nuovo governo. Voto più voto meno qui e là e una piccola batosta in aree come il Rakhine, dove la metà dei seggi son rimasti chiusi a causa della guerra, la Lega può vantare un consenso che ha riproposto un sostegno a valanga. Ne escono con le ossa rotte i militari e il loro partito per la solidarietà e lo sviluppo che, tanto per stare in linea con il trend generale, han subito contestato i risultati (con altri 16 partiti minori) chiedendo una Commissione di indagine sotto l’egida dell’esercito.

Anche le organizzazioni di monitoraggio del voto han sollevato questioni su alcune irregolarità ma non c’è abbastanza per dichiarare nullo un plebiscito per altro largamente previsto, nonostante i dubbi per via del Covid-19 e per i tanti risultati mancati nelle promesse fatte nel 2015 quando si svolsero le prime elezioni libere. La Lega intanto ha aperto il dialogo con 39 parti “etnici” (che rappresentano le varie nazionalità del Paese, esclusi ovviamente i Rohingya) per fare dell’Unione repubblicana birmana – com’è ora – una Federazione, passaggio fondamentale anche per far si che la guerra tra Bamar e altre nazionalità smetta di consumare vite ed energie.

Persino Tatmadaw, il nome con cui sono noti i militari birmani, sembra in realtà prepararsi già al futuro governo della Lega, tanto che l’altro ieri ha fatto sapere che sarebbe d’accordo a un nuovo riavvio del processo di pace già in corso con diversi gruppi armati (per ora 10), includendo nel negoziato anche quelli che non hanno ancora siglato l’Accordo di cessate-il-fuoco (Nca), precondizione che hanno sempre ritenuto (e imposto) come pregiudiziale e che, cadendo, aprirebbe la strada al dialogo con almeno altre sette formazioni. Resta da vedere cosa fare con l’Arakan Army, protagonista del conflitto più recente negli Stati Chin e Rakhine.

La Lega sarebbe disposta a negoziare. I militari, che hanno inserito l’AA tra i gruppi terroristi, han sempre detto no.

Quanto a un eventuale colpo di coda degli uomini in divisa, difficile pensare che abbiano in mente qualche azione spericolata. Del resto Tatmadaw ha dalla sua la Costituzione che gli garantisce il 25% dei seggi e tre dicasteri chiave oltre al fatto che la Carta non prevede che Aung San Suu Kyi possa diventare premier o presidente in quanto sposata con uno straniero. Non avranno dunque bisogno di ricorrere all’articolo della Suprema legge che dà loro la possibilità, in caso di grave attentato alla sicurezza nazionale, di sciogliere il governo ristabilendo una giunta.

Ma questa pesante eredità della dittatura resta anche il maggior ostacolo su una vera via democratica e nulla in Myanmar può mai dirsi scontato anche perché la Lega ha già provato a emendare la Carta senza riuscirci. La questione rohingya, della quale solo i giornali stranieri hanno molto parlato, in Myanmar è scivolata nel silenzio. E per farsene un’idea basta guardare la pagina Fb dell’Unione europea (EuinMyanmar) che qualche giorno fa ha postato una dichiarazione con cui l’Europa ricordava il dossier della comunità musulmana rifugiatasi in maggioranza in Bangladesh.

Decine di commenti invitavano al Ue a farsi gli affari suoi. Ma è anche vero che gran parte dei messaggi erano ripetuti identici solo con nomi diversi: una tattica fin troppo scoperta per far sembrare la situazione dei Rohingya solo una preoccupazione degli altri.