Non è un mistero che Kafka nutrisse profonda insoddisfazione verso i risultati della sua scrittura. A suggerirci un’incontentabile ricerca di perfezione intervengono svariate annotazioni dei Diari, ma soprattutto i passi soppressi dalle diverse opere, che già Ervino Pocar era riuscito a riprodurre, seppure in maniera parziale e asistematica, nei due volumi di Romanzi e Racconti della collana dei Meridiani. Anche per questo si resta stupiti nell’ascoltare le promesse di assoluta «novità» critica e filologica che accompagnano la recente uscita di Tutti i romanzi. Tutti i racconti e i testi pubblicati in vita (traduzione e cura di Mauro Nervi, Bompiani, pp. XXXII-2336,€ 65,00).

Questa nuova edizione, stabilita sulla base dei manoscritti originali e dell’edizione critica della casa Fischer Verlag, si prefigge di superare la presunta obsolescenza delle attuali traduzioni italiane di Kafka. Attraverso il repertorio completo e rigoroso delle varianti narrative, i lettori riuscirebbero finalmente a penetrare nel laboratorio creativo dello scrittore, ricavando un’immagine finora inedita del suo tormentato lavoro. E tuttavia, dopo una sommaria ricognizione degli apparati di note, ci si accorge che la novità può emergere solo a prezzo di accurate microscopie e finisce per coinvolgere zone limitate della narrazione, senza determinare un assetto davvero rivoluzionario dei testi.

Il caso forse più esemplare è rappresentato dalle varianti del Castello. E non solo perché i passi soppressi o sostituiti da Kafka, a cominciare dal frammento iniziale sull’arrivo dell’agrimensore K., ci sono già noti grazie all’edizione critica apprestata da Barbara Di Noi per Mimesis. La specifica novità offerta dall’edizione Bompiani riguarderebbe l’uso del racconto in prima persona, di cui Kafka si era servito nei tre capitoli iniziali, prima di ritornare sui propri passi e decidere di narrare la storia in terza persona. Ma un simile passaggio dall’«io» all’«egli», ci ha già ripetuto Blanchot nello Spazio letterario e nella Conversazione infinita, equivale per Kafka all’ingresso nel regno della finzione: è una strategia di distanziamento, ancora più drastica dell’impersonalità perseguita da Flaubert, che permette al romanziere di allontanarsi dai suoi personaggi e di consegnare le angosciose aporie della loro situazione ad una sfera di «irriducibile estraneità».

Anche le diverse varianti del Processo (già tradotto da Anita Raja per Feltrinelli sulla base dell’edizione critica di Malcolm Pasley) si muovono verso direzioni altrettanto prevedibili. Mentre i segmenti cassati nel Castello comprendono più che altro osservazioni dell’agrimensore sui meccanismi di un’inespugnabile burocrazia, la maggior parte delle cancellature del Processo va a colpire pensieri, dubbi e illazioni personali dell’imputato K. Entrambe le procedure di soppressione fanno dunque parte di una più generale operazione di depotenziamento del versante psicologico e collaborano, ognuna a suo modo, alla deformazione del «personaggio uomo», che con Kafka – come notava Giacomo Debenedetti – viene ridotto alla semplice «smorfia» di un «burattino» in balia di potenze inconoscibili.

Va in ogni caso riconosciuto che le introduzioni disseminate da Mauro Nervi nel volume si impegnano su più fronti per liberarci dagli stereotipi del «kafkismo», la tendenza che secondo Ladislao Mittner ha portato a confondere Kafka con un esistenzialista dell’assurdo. A differenza di quanto accade nel teatro di Beckett, le storie di Kafka non mettono in scena l’assurdità della vita, bensì un cortocircuito del senso che si produce, con effetti spesso onirici, attraverso il conflitto di due differenti logiche: la prima, lineare e aristotelica, viene condivisa dal protagonista e dai lettori, mentre l’altra, pur regolata da leggi precise, resta «aliena» e a noi imperscrutabile. Può essere questa l’idea da cui ripartire, anche con l’aiuto degli apparati filologici, per rimettersi in cerca di un nuovo Kafka.

Risponde il curatore della edizione Bompiani, Mauro Nervi
Nella sua recensione al volume Bompiani da me curato – Franz Kafka, Tutti i romanzi. Tutti i racconti e i testi pubblicati in vita – Ivan Tassi dà alcune informazioni che mi preme rettificare. La prima e più grave si legge già nel sommario, dove a proposito dei manoscritti kafkiani e delle loro varianti si dice: «Ervino Pocar ne aveva già dato conto». Tuttavia, le varianti riportate da Pocar nella sua ormai storica edizione Meridiani non erano solo riprodotte «in maniera parziale e asistematica», come dice Tassi, ma erano semplicemente la traduzione delle poche varianti riportate da Max Brod a partire dalla sua seconda edizione dei romanzi, e risalgono quindi agli anni Trenta del secolo scorso.

Brod, che si augurava una futura «edizione filologica» dei testi, riporta capitoli che riteneva «incompiuti», modificandoli anzi in più punti per facilitarne la leggibilità. Dei frammenti riportati da Brod e tradotti da Pocar, non viene indicata la collocazione nel romanzo, non sono fornite le varianti del manoscritto, in molti punti sono modificati nella sintassi e nel lessico. Ciò era giustificabile per Brod (che pubblicava un autore allora quasi sconosciuto) e anche per Pocar, che non poteva consultare l’edizione critica, apparsa a partire dal 1982. Lo è meno dopo che Kafka è stato riconosciuto come un grande classico della modernità.

So bene (e l’ho anche accennato nell’introduzione) che esistono traduzioni condotte a partire dall’edizione critica: in particolare è apprezzabile la versione di Barbara Di Noi, che riporta un ampio numero di varianti di quello che è il manoscritto più tormentato di Kafka, Il castello. Tuttavia ribadisco che a parte una nuova, integrale traduzione, la rilevante novità dell’edizione Bompiani consiste nel proporre non una scelta di varianti, ma tutte le varianti del manoscritto che stiano al di sopra del livello di semema, che abbiano cioè un qualunque senso in traduzione.
Forse Tassi (che legge Kafka filtrandolo attraverso autori eminenti di mezzo secolo fa come Blanchot, Debenedetti e Mittner) ritiene che questo non determini, come dice, «un assetto davvero rivoluzionario dei testi». Per parte mia ritengo che l’immagine di Kafka ne risulti enormemente più precisa, come una fotografia a centomila pixel lo è rispetto a una, poniamo, che ne utilizzi mille.
Per ottenere questo scopo bisogna senz’altro utilizzare «accurate microscopie», come si esprime Tassi, del resto proprio così procede quella che Nietzsche chiamava la «nobile arte della filologia», l’amore per il dettaglio, quella scrupolosa attenzione che è in fondo anche la grande lezione di Kafka nei confronti del mondo e della vita.

Quindi, le varianti non sono «pretese», e le «microscopie» sono necessarie: necessarie quanto la virtù dell’attenzione, che dovrebbe mettere in guardia prima di recensire un volume frutto, per quanto straordinario e gratificante per il suo curatore, di un grande impegno. Soprattutto se la recensione è stata scritta dopo «una sommaria ricognizione» del testo. Kafka merita ben di più: come dice una variante (per l’appunto cassata) del Castello, si vede molto solamente quando si guarda con attenzione, «per così dire senza battere le palpebre»: altrimenti svanisce tutto nel buio.

Ribadisce il recensore, Ivan Tassi: nessuna novità significativa
Le precisazioni di Mauro Nervi circa le «informazioni erronee» della mia recensione a Tutti i romanzi. Tutti i racconti e i testi pubblicati in vita mi offrono l’opportunità di far luce su alcuni dettagli, che in un primo momento avevo deciso di tralasciare per ragioni di spazio. Mi limiterò in realtà a rispondere alle osservazioni sulla curatela di Ervino Pocar, che a detta di Nervi avrebbe tradotto e reso note solo le «poche varianti riportate da Max Brod» nella sua originaria edizione dei romanzi di Kafka, senza per altro indicare la loro «collocazione» nel testo.

Nella collana dei Meridiani, come ho scritto, Pocar era riuscito a riprodurre una manciata di varianti in maniera del tutto parziale e asistematica. Se tuttavia si apre l’edizione del Castello ricavata nel 1979 per gli Oscar Mondadori sulla base del testo dei Meridiani, avremo modo di trovare in appendice, dopo la Variante dell’inizio e alcuni Frammenti, numerosi Passi cancellati dallo stesso Kafka.

«Il riscontro sul manoscritto del Castello – ci avverte una nota – ha permesso a Ervino Pocar di rilevare passi soppressi, non pubblicati da Max Brod» e qui indicati «fra parentesi quadre». Le successive quaranta pagine (per l’esattezza: da 319 a 361) riportano per l’appunto diverse decine di varianti, ognuna delle quali risulta correlata a un preciso passo del romanzo. Certo, non sono tutte: soltanto quelle che bastano per testimoniare, anche senza un’edizione critica, la maniacale – e ormai risaputa – ricerca di perfezione del laboratorio narrativo di Kafka.

Sempre a proposito di informazioni erronee, vale poi la pena richiamare un’altra dichiarazione di Nervi, che sulla Lettura di domenica 23 aprile, dopo aver parlato dell’inedito personaggio emerso dalle varianti di Un digiunatore, annunciava: «anche il racconto Nella colonia penale ha un finale alternativo». Ma dov’è la novità? Il «postludio» della Colonia penale nell’edizione Bompiani coincide con la conclusione a noi nota, preceduta da tre asterischi di distanziamento e corredata dai frammenti dei Diari: la si poteva già leggere nella traduzione della Metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita, curata da Andreina Lavagetto per Feltrinelli fin dal 1991.
Resta dunque da chiedersi quali siano le basi testuali che attraverso «la nobile arte della filologia» riescano a strapparci da una visione di Kafka forse filtrata da voci di «mezzo secolo fa», ma tutto sommato ancora capaci di costituire un rispettabile punto di partenza per nuove esplorazioni.