La formazione culturale degli allenatori incide sulle loro scelte in campo? Dei calciatori sappiamo quasi tutto, grazie alla loro presenza fin troppo eccessiva sui social, invece, degli allenatori conosciamo ben poco, se si esclude tutto quanto ruota intorno al calcio, alle tattiche, alle intese con i grandi campioni, alle loro vittorie riportate negli albi d’oro del football. In Italia sono pochi gli allenatori laureati che arrivano ai vertici del calcio, invece, tra i calciatori la percentuale di chi consegue una laurea è leggermente più alta, visto che la carriera in media non supera i 30 anni. Negli anni ‘60 l’unico allenatore laureato era Fulvio Bernardini, in Economia e Commercio alla Bocconi. Scomparso quarant’anni fa, allenò Roma, Fiorentina, Bologna, Lazio, Sampdoria e dal 1974 al 1977 fu alla guida degli Azzurri. Negli anni in cui diresse la Nazionale, il suo vice era Enzo Bearzot, che gli subentrò come ct in vista dei Mondiali del 1978 in Argentina.

Il Vecio Bearzot, chiamato così dallo scrittore piemontese Giovanni Arpino in Azzurro Tenebra, romanzo ispirato alla fallimentare spedizione azzurra ai mondiali del ‘74, era anche il vice del ct Ferruccio Valcareggi in Germania. La sua formazione culturale era solida e variegata, come ricorda la figlia Cinzia, che dalla libreria di casa ha attinto molto per la sua formazione negli anni dell’adolescenza e oltre. Enzo Bearzot aveva studiato in un liceo classico di Gorizia, i genitori lo volevano medico o farmacista, ma lui preferì la via degli stadi a quella degli studi. Era affascinato dall’ebbrezza che la folla sugli spalti gli trasmetteva, confessò anni dopo. Forse indispettì i suoi genitori, ma non sbagliò, visto che quella scelta lo portò in cima al mondo con la vittoria del Mundial del 1982 in Spagna. Enzo Bearzot seppe conciliare la conoscenza profonda del calcio internazionale con gli interessi culturali, che coltivò tutta la vita nei più disparati campi del sapere.

Profondo conoscitore della musica jazz, il Vecio associava i calciatori della Nazionale ai grandi di questo genere musicale. Quando nei giorni del Mundial ‘82 preparava la formazione dei calciatori che avrebbero giocato contro l’Argentina di Maradona e poi contro il Brasile di Falcao, sul foglio di carta non scriveva i nomi dei giocatori, bensì quelli dei grandi jazzisti.

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Le letture degli scrittori americani da Fitzgerald a Hemingway, da Caldwell a Steinbeck lo appassionavano intensamente, ma il punto di riferimento per le tattiche in campo sembrava fosse il De bello gallico di Giulio Cesare, che l’allenatore friulano considerava « il più bel libro di storia» per la chiarezza e la sintesi che trapelavano dalle sue pagine, tale da ritenerlo un vero e proprio romanzo. La conoscenza di Bearzot per i classici non si limitava a Giulio Cesare, che nell’impresa straordinaria del 1982 avrebbe sicuramente associato a Paolo Rossi, centravanti distintosi per opportunismo e freddezza in area di rigore, tali da mettere fuorigioco prima l’Argentina e il Brasile, aprendo di fatto la strada alla conquista del Mundial. Il Vecio amava leggere le opere di Polibio, lo storico dell’antica Grecia, dello scrittore latino Orazio, le poesie di padre Maria Turoldo.

A Milano Bearzot era assiduo frequentatore del Teatro Nazionale di Piazza Piemonte, dalla quale si dirama via Washington, dove abitava. Spesso Enzo Bearzot si recava al Nazionale con l’ artista e scultore sardo Aligi Sassu. Infatti, l’allenatore degli Azzurri campioni del mondo era anche un grande appassionato di arte, più che acquistare opere di valore, come ha fatto l’ altro grande allenatore friulano Fabio Capello, amava leggere i libri d’arte. Sembra che siano oltre cinquecento i libri d’arte donati da Bearzot alla biblioteca dell’Università Cattolica di Milano alcuni anni fa. Per stare all’oggi, nel corso di un’intervista che facemmo a Zeman a Foggia per «Alias», ci sorprese con quanta scorrevolezza il Boemo parlasse di Havel e Kundera, Battisti e Mina, della strage di Piazza Fontana e del Vietnam, del «buon soldato Zvejk» antieroe della resistenza passiva del popolo cecoslovacco e della sua Praga.

Laureato in Filosofia era Manlio Scopigno, allenatore del Cagliari dello scudetto, che oltre ad aver allenato Gigi Riva, campione recentemente scomparso, balzò alle cronache per aver abolito il ritiro prepartita: la Sardegna è già un ritiro, scherzava. Insieme a Rombo di Tuono, come Gianni Brera chiamava Gigi Riva, a Domenghini e a Martiradonna, il trio sul quale il filosofo costruì la favola del Cagliari dello scudetto nel 1970, Scopigno condivideva le sigarette, mentre il vizio del bicchiere di whisky a portata di mano fino a notte fonda, l’allenatore filosofo lo condivideva con Luciano Bianciardi, titolare di una rubrica di calcio sul «Guerin Sportivo», diretto da Gianni Brera. Lo scrittore maremmano, autore di La vita agra, L’integrazione, Il lavoro culturale, nonché traduttore di London, Miller, Faulkner, Steinbeck, preferiva seguire da vicino le partite del Cagliari. Oltre a condividere i bicchieri di whisky con Manlio Scopigno amava fare lunghe conversazioni letterarie e filosofiche.

Così scriveva Luciano Bianciardi sul «Guerin Sportivo» qualche mese dopo la conquista dello scudetto del Cagliari: «Naturalmente lo Scopigno me lo ritrovai di fronte a notte alta, insieme al suo amico Gegè, con in mano un bicchiere di whisky. Mi chiese cosa leggere, e io gli consigliai il Lamento di Portnoy. Accidenti a lui, lo aveva già letto. Scopigno ha letto tutto, sempre: non c’è caso di fregarlo con i consigli letterari. L’unica cosa che non legge, dice lui, sono i giornali sportivi, ma mente. Per dispetto gli chiesi come si dice whisky in latino. No, non lo sapeva, per mia fortuna. Si dice spiritus frumenti». Con Bianciardi discuteva anche di Hegel, de L’uomo a una dimensione e di Eros e civiltà di Marcuse. Chissà se quelle letture avranno inciso sulla conquista dello scudetto. A noi piace pensarlo.