Pressioni saudite all’Onu: si dimette l’inviato speciale per lo Yemen
Yemen L'Iran risponde vestendo i panni del mediatore e avvia colloqui con i poteri regionali per giungere al cessate il fuoco. Al Qaeda prende l'aeroporto e il porto di Mukalla
Yemen L'Iran risponde vestendo i panni del mediatore e avvia colloqui con i poteri regionali per giungere al cessate il fuoco. Al Qaeda prende l'aeroporto e il porto di Mukalla
La battaglia per lo Yemen uccide gli yemeniti, ma si gioca su tutt’altri tavoli. Mentre supera 700 il bilancio delle vittime dei raid sauditi e degli scontri tra Houthi e forze governative, a decidere le sorti del paese sono i burattinai regionali. Su tutti l’Arabia saudita che con una mano bombarda Aden e Sana’a e con l’altra muove i fili della repressione del movimento sciita all’Onu.
Dopo aver ottenuto il sì del Consiglio di Sicurezza (con l’astensione della Russia) alla risoluzione che impone l’embargo di armi ai ribelli, ieri Riyadh ha visto cadere la testa dell’inviato speciale delle Nazioni Unite in Yemen. Jamal Benomar, da 4 anni impegnato a pacificare il paese prima e dopo la caduta dell’ex presidente Saleh, ideatore di un piano di riconciliazione mai realizzatosi, ieri si è dimesso. Dietro, le fortissime pressioni dei Saud che non hanno mai gradito Benomar, a cui imputano la rottura sciita. Come se dietro quella ribellione non ci fosse la marginalizzazione imposta dal potere centrale e dalle potenti tribù del sud, che hanno escluso dal potere la minoranza sciita, portandola alla sollevazione.
Dopo che la scorsa settimana il presidente yemenita Hadi, alleato saudita, ha fatto sapere che non avrebbe più preso parte ai negoziati sponsorizzati da Benomar, il diplomatico ha annunciato le dimissioni. Secondo fonti del Palazzo di Vetro, il segretario generale Ban Ki-moon potrebbe sostituirlo con Cheikh Ahmed, ex inviato speciale per la Libia.
Alle interferenze saudite ha risposto Teheran: «Abbiamo relazioni con gruppi di diversi Stati, le useremo per portare tutti al negoziato», ha detto il ministro degli Esteri Zarif, aggiungendo di aver già discusso con Turchia, Oman e Pakistan e di aver messo sul tavolo un piano che prevede cessate il fuoco, assistenza umanitaria immediata e governo di unità. Teheran approfitta della rinnovata legittimazione internazionale per vestirsi da mediatore, nonostante il presunto supporto agli Houthi che secondo i suoi nemici sarebbe da tempo di stampo militare.
Ma soprattutto ad alzare la testa è Baghdad. Di nuovo epicentro dello scontro è New York: mercoledì il premier iracheno al-Abadi, in visita alla Casa Bianca, dopo aver battibeccato con Obama sugli aiuti militari, si è lanciato contro la crociata anti-sciita di Riyadh. Un duro attacco che fa traballare la complessa rete di alleanze Usa. Mai Iraq e Arabia saudita sono stati amici stretti, seppur in comune abbiano il sostegno finanziario di Washington e la partecipazione alla cosiddetta guerra al terrore.
A stretto giro dalle critiche di al-Abadi («I raid non hanno logica») è giunta la risposta della Casa Bianca che ha espresso sostegno ai sauditi e quella di Riyadh: che l’Iraq si occupi dei suoi problemi e resti fuori dalle manovre dei Saud. Chi approfitta di tali manovre e dell’instabilità del paese è al Qaeda: ieri il gruppo ha preso il controllo dell’aeroporto, il porto e l’impianto di greggio di Mukalla, nella provincia meridionale di Hadramawt.
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