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Presidenziali Usa, l’elezione diretta che ora divide e non unisce

Presidenziali Usa, l’elezione diretta che ora divide e non unisceProteste dei sostenitori di Donald Trump – AP

Usa 2020 Le elezioni si vincono puntando sulle estreme, e spostando su queste l’elettorato di centro. Trump non è mai stato il presidente di tutti. L’istituzione presidenza è diventata divisiva.

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 17 novembre 2020

La vittoria di Biden negli Stati Uniti è ormai anche formalmente certa. Ma Trump, rompendo la tradizione, si rifiuta di concedere la vittoria all’avversario. Anzi, insiste nell’accusa di brogli, e piazza suoi fedelissimi in posizioni chiave nella amministrazione federale.

Sul perché lo faccia troviamo letture diverse. Tentativo di golpe di stampo sudamericano? Conservare i consensi fideistici, per puntare alla rielezione fra quattro anni? Costruire un argine contro i giudizi civili e penali all’uscita dalla Casa Bianca, per questioni che vanno dai reati sessuali alla frode fiscale? Si dice persino che potrebbe usare il potere di grazia concedendo a se stesso l’immunità come ultimo atto da presidente.

Tutti sottolineano come Trump abbia mancato di pochissimo il secondo mandato. Tra i maggiori imputati è il Collegio Elettorale e il voto per stati, per cui – con le sole eccezioni di Nebraska e Maine – il candidato che vince nelle urne prende tutti i grandi elettori dello stato. Un tema antico. Quasi 50 anni fa scrivevo la mia tesi di Master in diritto costituzionale presso la Harvard Law School sulla riforma del Collegio Elettorale, di cui già allora si discuteva da tempo. Il punto cruciale era la possibilità che il perdente nel voto popolare generale vincesse nel Collegio. Come è accaduto con Trump e Hillary Clinton nel 2016, e poteva ben ripetersi oggi, se meno di 80.000 voti – secondo un’analisi – in pochi stati-chiave fossero andati a Trump piuttosto che a Biden.

Non meraviglia quindi l’editoriale del Washington Post “Abolish the Electoral College” (15 novembre). Concordo oggi, come 50 anni fa. Ma l’obiettivo è – come er- reso di fatto irraggiungibile dal groviglio di interessi che sostiene il sistema vigente, dai piccoli stati che ne sono avvantaggiati, alle lobbies che in ciascuno stato possono essere decisive ai fini della vittoria per il principio maggioritario del winner take all (il vincitore prende tutto) applicato ai grandi elettori. Un percorso impervio. Si fa strada l’idea di un Interstate Compact (un accordo fra stati) di modificare le leggi di ciascuno stato nel senso di assegnare i propri grandi elettori al candidato vincente nel voto popolare in tutto il paese. Ma gli stati fin qui favorevoli totalizzerebbero solo 192 voti nel Collegio elettorale. Invece, sterilizzare l’effetto distorsivo del Collegio elettorale richiederebbe l’accordo di tanti stati da raggiungere la maggioranza di 270. L’obiettivo è lontano.

Dunque, tutto come 50 anni fa? No, perché oggi l’istituzione presidenza ha problemi nuovi. Allora era considerata una istituzione unificante. Le elezioni si vincevano puntando al centro, secondo un luogo comune nelle competizioni maggioritarie. Non così oggi. Le elezioni si vincono puntando sulle estreme, e spostando su queste l’elettorato di centro. Trump non è mai stato il presidente di tutti. L’istituzione presidenza è diventata divisiva. Il voto popolare per il presidente era unificante nell’America del melting pot, crogiolo di etnie e lingue, e della espansione apparentemente inesauribile della classe media che permetteva al «sogno americano» di mostrarsi realizzabile in concreto. Ma se crescono a dismisura le diseguaglianze e il fossato tra ricchezza e povertà, mentre diritti fondamentali come la salute e l’istruzione degradano in privilegi, il melting pot scompare e nelle urne si apre uno scontro tra armate contrapposte.

Il principio si può formulare così: in un paese diviso l’elezione diretta di un capo dell’esecutivo non unifica, ma contribuisce alla spaccatura radicalizzando il sistema politico. Lo suggerisce anche l’esperienza recente di altri paesi – come la Gran Bretagna o la Francia – che in forme diverse conoscono una investitura popolare del leader. Biden riprende oggi il mantra di rappresentare tutti. Il 3 novembre, un giorno prima del voto, un editoriale del New York Times titolava “Feel inspired, America”. Ma si ritiene alto il rischio che il paese rimanga diviso.

La lezione andrebbe ascoltata da chi in Italia vorrebbe coniugare in una sintonia virtuosa l’unificazione del presidenzialismo e la frammentazione dell’autonomia differenziata. Anche noi siamo già divisi. Un presidente eletto con voto popolare potrebbe essere il calcio d’inizio di una partita Nord contro Sud, e apprendisti stregoni ne abbiamo abbastanza. Siamo un paese che studia poco, e ancor meno impara dalle esperienze altrui.

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