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Presenze erranti su nel cielo

Presenze erranti su nel cieloOsvaldo Licini, "Blu luna"

Musei Riapre da oggi la casa dell'artista Osvaldo Licini a Monte Vidon Corrado. Una visita in anteprima

Pubblicato quasi 11 anni fa

La casa di Osvaldo Licini è intimamente limitrofa a una grande terrazza, aperta ai quattro venti e all’abisso delle colline sulla prima trincea dello sguardo, e subito dopo a gittata larga sui Sibillini, sono innevati e misteriosissimi, monti esoterici e magici. Qui si è formato il suo sguardo, i suoi colori, il mondo intimo, assorto, antico (eppure modernissimo), che è quello dei borghi italiani medievali, e anche della piccola e miracolosa Monte Vidon Corrado, che scherzosamente nelle lettere spedite chiamava Polo Sud, dove era nato e aveva nutrito gli occhi, ammaestrato lo sguardo.

Il padre era un disegnatore, anche cartellonista, la madre dirigeva una casa di moda e la sorella prima ballerina all’Opera, che presto si trasferirono a Parigi, così visse qui con il nonno Filippo, in questo luogo silenzioso che è un corpo tenero di case nel borgo chiuso di tetti spioventi e di muri resistenti, dove ho sempre collocato questo grande artista pallido, dai capelli scomposti e argentati, le labbra umide, non carnose ma languide, un poco rovinate, avvolto dalle sue giacche larghe, che del vitalismo artistico sembrava l’incontrario, che pareva allampanato e statico. Invece per me Licini è sempre stato l’energia, lo slancio, il volo magico, l’eresia di questi angeli ribelli in una terra papalina che invece agli angeli tarpava le ali, il vitalismo del colore, l’eros prepotente di Errante, erotico, eretico un libro cult stampato da Feltrinelli negli anni ’70 e da tempo editorialmente desaparecido.

Questa natura che scorgo dalla terrazza ventosa è stata anche la sua, la misura e le linee nervose del periodo figurativo mostrano già un paesaggista eccentrico, la sua nota «Marina» è instabile ed esistenzialistica, ma anche gli angeli ribelli li ho sempre immaginati in queste quinte colorate a danzare sopra i monti azzurri di cui parlava Giacomo Leopardi, così come le Amalassunte, che definì «la Luna nostra bella garantita d’argento per l’eternità, personificata, in poche parole, amica di ogni cuore un po’ stanco».

Lo immagino, da qui «fuggire sempre e sempre ritrovarsi», come scrisse un suo grande amico e poeta, e faccio mio il ritratto che ne fece su L’Espresso, dopo la morte, Lionello Venturi: «La sua natura era quella di un proprietario terriero, raffinato e ripiegato su se stesso, timido, ironico ed aggressivo. Egli aveva piena coscienza del valore intellettuale della sua arte. A chi lo tacciava di cerebrale chiedeva se doveva dipingere con gli intestini anziché col cervello. Come un monaco medievale vedeva il mondo intero dalla sua cella, ma scendeva dal suo villaggio per andare a Milano, a Venezia, a Roma e a Parigi».

Monte Vidon Corrado, comunque, era il suo piccolo, grande mondo, come ha voluto ricordare Daniela Simoni, direttrice del Centro studi e custode critica del suo lavoro: «il belvedere con i suoi paesaggi, il parco pittorico che evoca i colori dei suoi dipinti, le viuzze silenziose, i percorsi di campagna verso San Liberato o contrada La ruota dove andava a dipingere en plein air».

Quando Vania Calamita apre il portone, rientro nella casa dove sono già stato che, nel 1926, questo pittore anomalo, particolarissimo e appartato, elesse a luogo della sua creatività portando con sé anche l’artista svedese Nanny Hellström, che sposerà pochi mesi dopo. Qui, fino alla fine dei suoi giorni, intensamente, in un paese di ottocento anime, vive tutte le sue stagioni più importanti, uscito da poco da una formazione figurativa, segnata da paesaggi e nature morte, approda al periodo astratto del Milione, la galleria milanese che intorno agli anni ’30 lo accoglie, fino a quello che lo porta a creare i Personaggi, come L’olandese volante, o gli Angeli ribelli, ambiguamente doppi, figure celesti dalla coda luciferina e, alla fine, gli aquiloni e i Missili lunari. Prima del ritorno definitivo, dopo l’Accademia a Firenze, era riuscito persino a partire volontario e interventista per la prima grande guerra, dove tornò ferito e con una piccola menomazione, poi nel 1917 a sbarcare a Parigi, sul Boulevard Montparnasse, dove conobbe Pablo Picasso e Cocteau, s’invaghì di Rimbaud, Mallarmé e Valery, e presto diventò amico di Amedeo Modigliani che seguì nelle scorribande alcoliche e bohemien notturne.

Al pianoterra, nel salotto, probabilmente riceveva gli amici Checco Catalini, Acruto Vitali e Luigi Dania, critici come Luigi Carluccio, Umbro Apollonio e Raffaele Carrieri, Giuseppe Marchiori, o il fotografo Bernhard Dagehart che lo ritrasse nel 1955 scattando proprio qui alcune indimenticabili istantanee.

Ricordavo la scalinata che ho di fronte, che dal pianoterra, dove si trovano la cucina e una grande sala illuminata, conduce nella parte notte, alla camera da letto e allo studio, così come ricordavo il guardaroba e, intatte, le giacche e le vestaglie di Licini, ancora appese alle grucce. Ci sono ancora, ormai come elementi di arredo, le scorgo aprendo l’anta impolverata di un armadio a muro che sta vicino al bagno. La camera dei coniugi Licini è ampia, al centro un letto molto francescano, in legno chiaro, appoggiato a una parete affrescata di nero dall’artista marchigiano, simmetrico alla spalliera, un triangolo arancio, una «archipittura», traccia della sua adesione all’astrattismo, e al centro la riproduzione di un quadro di madonna con bambino. Qui, proprio in questo letto, Licini morì l’11 ottobre del 1958, poco dopo aver ottenuto il Gran Premio Internazionale di Pittura alla XXIX Biennale di Venezia. La motivazione fu impeccabile: «È Osvaldo Licini di Monte Vidon Corrado presso Fermo, nato nel 1894, un anziano dunque, che è più giovane dei giovani. Le sue composizioni sono piene di allusioni e segreti, i suoi colori sono preziosi come smalti, i suoi motivi sono fantastici anche se rivelano forme obiettive, la sua poesia è sempre concentrata in piccolo spazio».

Quello che colpisce di più è lo studio, ricostruito rigorosamente come appariva in una foto in bianco e nero degli anni ’50, appesa all’ingresso come prova filologica. Fa impressione starci, guardare il tavolinetto con sopra gli occhiali dorati in metallo, la scatola con i sigari habana in bella vista e una copia del periodico letterario L’orto, mentre sul lato sinistro è appoggiato uno dei suoi bastoni. Di fianco, sull’angolo, vicino alla finestra, la scrivania con la tavolozza impappata di tempere seccate dal tempo, la scatola con i carboncini smozzicati, il contenitore dei pennelli, alcune riviste d’arte e, affisso al muro, il manifesto della Biennale di Venezia, così come un piccolo quadro con incorniciato un suo pensiero scritto a matita in un biglietto molto enigmatico mangiucchiato dagli scarafaggi: «Ho un gallo che canta ogni mattina alle 5. Se tu riesci a farmelo cantare anche di sera alle 5 in punto precise, ti farò un magnifico regalo». Dalla parte opposta, il letto con sopra i tappeti colorati, ancora sporchi di colore, e il cavalletto in legno dove lavorava e dove hanno preso vita molti dei suoi capolavori.

Nelle cantine restaurate, ma che nel dopoguerra saranno state anguste e polverose, e che ospiteranno in futuro mostre di arte contemporanea, agiva il Licini politico. Lì si radunavano i comunisti della zona, braccianti agricoli come Nerone, il quale sfidò un noto latifondista, i sovversivi dell’epoca, che l’autore delle Amalasunte organizzava. Quel comunista libertario, avversato dai neri del paese, che da giovane cantava nelle zona delle Ripe, avvolto nei suoi scialli coloratissimi da donna, tra Monte Vidon Corrado e Falerone, e in pieno Fascismo: «O mamma non piangere se mi hanno purgato, perché ho gridato viva Lenin. Domani urlerò ancora più forte viva la Russia, abbasso Mussolini!», come raccontò novantenne al nipote Giuseppe Postacchini, Carolina Abelli.

Poi sarà anche sindaco del paese, laico e lirico dopo la sua seconda rielezione scriverà dentro la cupa temperie degli anni ’50: «Senza comizi, senza manifesti, senza promesse, senza confessionali, senza inferno, solo col mio nudo agghiacciante silenzio, ho sbaragliato preti e frati impostori e apocalittici, piovuti nel mio paese per sradicare ’la malapianta’. Sarò ancora sindaco, mio malgrado!».

 

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