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Presenza dei Celti in Veneto

Presenza dei Celti in VenetoReperto celtico, Museo Archeologico Cadorino, Pieve di Cadore

Una revisione Il libro di Giovanna Gambacurta e Angela Ruta Serafini: un supporto storico e archeologico ben diverso dalla narrazione leghista su una supposta identica matrice celtica dei popoli del nord

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 18 aprile 2020

Già dalla seconda metà del I millennio a.C. il fascino per i gioielli di gusto esotico tra gli antichi Veneti è favorito dall’intenso e fiorente commercio con i Celti di Golasecca ed Halstatt. Nel IV sec. a.C. le élite si scambiano gioielli in argento o in pasta vitrea e la staffa a terminazione zoomorfa delle fibule, le spille che accompagnano i tessuti rievocano quelle trovate nella necropoli del Dürrnberg vicino ad Hallein.

In pianura, da Este a Padova ma anche ad Oderzo, circolano le fibule ad arco rialzato o quelle dotate di molla bilaterale e compaiono grandi orecchini in argento o in bronzo con terminazione a bauletto che risentono del gusto tipico dell’Est. Oltre a importare fibule, armille (braccialetti) e orecchini i gusti decorativi celtici influenzano anche la produzione locale di armi e ceramiche. Ad Este oreficerie specializzate lavorano per una clientela privilegiata, le signore si agghindano come le straniere e le giovani spose, arrivate da lontano con la loro dote, cementano nuovi legami di parentela.

C’è poi il gancio da cintura traforato che i Celti utilizzavano come sistema di sospensione della spada, mentre in Veneto viene adottato come accessorio
dell’abbigliamento soprattutto femminile. Più della spada, dunque, poterono la moda e il fascino per le linee morbide e i disegni vegetali dei gioielli di quei popoli che nel IV sec. a.C. distrussero città come Mediolanum e si insediarono a Felsina, l’attuale Bologna. Il Veneto che già da almeno duecento anni vantava città dalla spiccata autonomia, una propria scrittura ed un proprio sistema religioso, rimane ai margini delle guerre conservando la propria identità e coesione. Ad affermarlo sono due tra le più importanti studiose della antica civiltà veneta Giovanna Gambacurta e Angela Ruta Serafini nel loro ultimo lavoro I Celti e il Veneto, Ante Quem editore.

Il volume si avvale di un corposo apparato fotografico, è arricchito da disegni esplicativi, utilissime carte distributive che introducono ogni capitolo e, in appendice, da liste analitiche dei rinvenimenti che rendono leggibile la narrazione anche ai non addetti. Nel volume, che ospita anche un saggio sulla monetazione locale di Federico Biondani, sono descritte le diverse fasi che caratterizzano i rapporti tra i due popoli, attraverso una rigorosa scansione cronologica che parte dal V sec. a. C. sino alla romanizzazione. Le autrici sottolineano i «differenti momenti di confronto tra culture» l’integrazione e le numerose direttrici di traffico oltreché «la autonoma rielaborazione locale di modelli alloctoni, segnali di una elevata pulsazione del territorio». Un supporto storico e archeologico ben diverso dalla narrazione leghista su una supposta identica matrice celtica dei popoli del nord.

Nessuna invasione in armi dunque nella fertile regione degli Eneti dove, tra il VI e la seconda metà del V sec a.C., la presenza celtica è costituita da piccoli gruppi di armati che si insediano in aree marginali come Montebello o Montebelluna per affiancarsi alla popolazione locale.

Nemmeno nel IV sec. a.C. quando le invasioni storiche culminano nella presa di Roma da parte dei Senoni cambia qualcosa. Nonostante la ripercussione di tali eventi debba aver «comportato una vasta eco nella penisola – spiegano le autrici- provocando la diaspora di nuclei di armati che si offrivano come mercenari, cercando appoggio e sostegno presso le popolazioni italiche». In quel periodo in Veneto fanno capolino fibule dalle nuove forme e armille in pasta di vetro dai colori vivaci insieme ad anelli d’argento e orecchini vistosi.

I guerrieri Celti vengono progressivamente inseriti nelle società locali, si recano nei santuari di Altino, Este, Lagole di Calalzo dove lasciano bronzetti votivi per propiziarsi il favore delle divinità e allontanare i pericoli della guerra. Ad Altino una iscrizione votiva, rinvenuta nel santuario nord occidentale, ricorda un addetto al culto della divinità marziale Belatucadro, equivalente al dio celtico Beleno. A partire dalla metà del III sec. a. C. i gioielli in oro, argento e pasta vitrea assieme al vasellame in bronzo di ispirazione etrusco ellenistica indicano un probabile periodo di pacificazione e di sviluppo. Le attestazioni onomastiche con influssi celtici si moltiplicano tra il III e il I sec. a.C. ad Este, Altino, Oderzo, Vicenza dove troviamo singoli personaggi o nuclei familiari eminenti inseriti nella società locale grazie ad importanti relazioni economiche e politiche. Attorno alla metà del III secolo un celta di origine boica è perfettamente inserito nella élite atestina e i matrimoni misti diventano probabilmente una consuetudine.

In una situla di bronzo usata come ossario il nome Frema Boialna, testimonia il matrimonio di una signora locale con un immigrato di provenienza boica. Il nome dell’altra defunta, Rebetonia Votinia, rivela le sue origini celtiche. Ad Isola Vicentina in una stele il committente del monumento si chiama IATS, un nome «forse riferibile al popolo celtico dei Laevi e la sua condizione di straniero venetizzato Osts Venetkens».

Nel secolo successivo il dominio cenomane si consolida nel comparto sud occidentale fino ad accerchiare Este e le campagne circostanti. Nella bassa pianura veronese e a Verona, centro multietnico da cui passa l’Adige, nelle tombe dei guerrieri vengono esibite panoplie complete che rappresentano la condizione di uomini liberi all’interno della comunità. Nel comparto centro orientale invece si diffondono i torques, una affermazione di identità celtica che recupera la tradizionale collana rigida. Stabilità e benessere favoriscono nuovi traffici e la ricchezza si percepisce dallo sfoggio del costoso vasellame da mensa. In quel periodo nel Veneto occidentale inizia a circolare la dracma di imitazione massaliota (ovvero originaria di Marsiglia) di provenienza padana, mentre in quello orientale l’imitazione della dracma massaliota è locale. La svolta arriva attorno al 225 a.C. Quell’anno i Veneti alla battaglia di Talamone inviano, insieme ai Cenomani, contingenti in appoggio ai Romani contro i galli Boi, gli Insubri e i Gesati.

Nel 186 a.C. dodicimila Galli transalpini invadono le propaggini della regione ad est ma dopo tre anni vengono respinti e costretti a ritirarsi. A presidio della frontiera verso l’Istria quanto verso la traiettoria settentrionale austriaca e le regioni ricche di ferro della Carinzia i Romani fondano e rafforzano Aquileia inviando ben 1500 famiglie d’accordo con le élites locali. Roma costruisce importanti strade consolari come la via Postumia che attraversa l’Italia settentrionale e, in Veneto, collega Verona ad Aquileia. I contatti col sud sono assicurati dalla via Annia sulla direttrice Ravenna, Adria, Padova e Altino e da una altra strada che, distaccandosi dalla via Emilia all’altezza di Modena, arriva fino ad Este. E così, alleandosi con Roma, i Veneti cercano di difendersi dalla crescente pressione cenomane nel basso veronese dove l’incremento delle armi si fa sempre più minaccioso. Nel 222 infine i Romani proibiranno l’uso delle armi ai Cenomani favorendo una relativa stabilità per il Veneto le cui città entreranno gradualmente a far parte del futuro impero.

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