Disposti su due file che si fronteggiano, sul palco sono schierati quindici rossi estintori di vari modelli. Escono gli esecutori, che prendono posto ciascuno al proprio «strumento». Con la sua eleganza demodé, in completo marrone, Sven-Ake Johansson arriva per ultimo, e con le spalle alla platea dispone davanti a sé un leggio con partitura. Comincia a dirigere, e indica alcuni esecutori a sinistra, che sparano schiuma, o a destra, che sparano vapore: o fa «suonare» una intera fila. Fra i vari momenti Johansson lascia delle sapienti pause. Una bianca bordata di vapore avvolge direttore e leggio, e, senza che la cosa sia voluta, fa volare via la partitura, poi lambisce la prima fila di spettatori, con qualche colpo di tosse. Una pozza man mano si allarga sul palco. Come fuoco d’artificio finale Johansson fa sparare da destra e da sinistra, in un tripudio di sostanze antincendio. Il tutto dura pochi minuti. Esilarante. Johansson saluta il pubblico e se ne va.

NON BASTA prendere una manciata di estintori e farli eruttare così come per fare free music non basta prendere degli strumenti ed improvvisarci: c’è chi lo sa fare e chi no. Meritorio che il Jazzfest di Berlino – anche affidandando a questa «Ouverture per quindici estintori» l’apertura di una delle serate nella grande sala della Festspiele – abbia voluto rendere omaggio a Sven-Ake Johansson, un maestro tanto della free music europea che di invenzioni musicali di ispirazione Fluxus. Classe ’43, Johansson inizia da ragazzino suonando il tamburo in una banda della sua città, in Svezia; alla metà dei sessanta incontra casualmente due tedeschi, Peter Brotzman e Peter Kowald, che sono fra i primi protagonisti dell’improvvisazione europea, e diventa batterista del loro trio; nel ’68 partecipa all’epocale Machine Gun di Brotzmann, e sceglie Berlino, dove vive tutt’ora. Johansson è stato un pioniere dell’improvvisazione radicale del vecchio continente, anche se non è stato propriamente uno dei capiscuola – come invece Tony Oxley, Paul Lovens ecc. – della nuova concezione radicale del drumming in questa corrente: e il perché lo si coglie benissimo in due esibizioni in cui è in veste di batterista, con musicisti tutti più giovani di lui. In trio con Bertrand Denzler, sax tenore, e Joel Grip, contrabbasso, è una meraviglia vedere il suo modo elastico, sottile, sensibile, timbricamente attento di suonare: lo fa in maniera tutto sommato ortodossa, e si vede lontano un miglio che ha cominciato come batterista di orchestre da ballo, e che quel mestiere e quel senso dello swing gli sono rimasti addosso. Ma è anche uno specialista nel suonare pezzi di cartone. Dopo le esperienze «storiche» dei sessanta e settanta, Johansson ha mantenuto il contatto con l’evoluzione e le nuove generazioni della free music europea: nell’originale quintetto che Johansson guida al festival c’è per esempio il trombettista Axel Dorner. Una riflessione molto intelligente sul percorso di Johansson e sul suo essere, in senso forte, un artista (e con impagabili immagini da un concerto per trattori d’epoca), l’ha offerta la proiezione di Blue for a Moment, film del 2017 di Antoine Prum.
Dopo una 57a edizione solo digitale nel 2020 e una ibrida lo scorso anno, alla 59a il Jazzfest è tornato totalmente in presenza: ricco cartellone su quattro giorni, distribuito fra sala principale e altri spazi del Festspiele, la Gedachtniskirche (dove si è esibito John Surman), due club, e anche alcuni spazi «di quartiere» per piccoli set la domenica mattina, il tutto non senza alcune dolorose sovrapposizioni. Programma decisamente orientato al versante di ricerca e all’attualità più stimolante del jazz, con un approccio – anche attraverso talk con gli artisti – attento a quello che sta dietro e intorno alla musica.

DOPO Johannesburg, Sao Paulo e il Cairo del 2021, il Jazzfest prosegue con il suo interesse per grandi poli della creatività. Quest’anno erano riconducibili a Chicago molte proposte, con leader che nella Windy City vivono o si sono formati: la violoncellista Tomeka Reid, il batterista Hamid Drake col suo omaggio ad Alice Coltrane, la sassofonista Matana Roberts, il sax tenore Isaiah Collier, il cornettista e vocalist Ben Lamar Gay, il chitarrista Jeff Parker. Oltre a Collier si è esibito un altro giovane sassofonista afroamericano che si è imposto in questi ultimi anni, il sax alto Immanuel Wilkins. Poi pianisti di prim’ordine con un quartetto inedito di Craig Taborn e con il trio Borderlands con la canadese Kris Davis. Molte altre presenze femminili interessanti, come la percussionista francese Camille Emaille, la sassofonista danese Mette Rasmuussen in trio e la batterista/percussionista coreana Sun-Mi Hong col suo quintetto. Chiusura festosissima con l’esuberante Supersonic Orchestra guidata dal norvegese Gard Nilssen.