Prendere cura
Verità nascoste La rubrica settimanale a cura di Sarantis Thanopulos
Verità nascoste La rubrica settimanale a cura di Sarantis Thanopulos
Sarantis Thanopulos: «C’è, Aldo, un gran parlare di cura. La cura della propria salute e di quella degli altri, della propria persona, della propria casa, delle persone care, dell’amicizia, del lavoro, degli spazi e degli interessi comuni. Si ha, tuttavia, una crescente percezione di incuria, a partire dall’indifferenza, macroscopicamente evidente, nei confronti dell’ambiente in cui viviamo e dalla trascuratezza che mostriamo nei confronti delle nostre relazioni affettive e erotiche, rese sempre più frettolose e superficiali. La cura contiene due dimensioni problematiche dalle quali le è difficile emanciparsi. Il curarsi della superficie, lasciando fuori la complessità della profondità, che implica un elaborazione mai priva di difficoltà del nostro agire curante, e l’assistenza: curare l’oggetto del nostro investimento psicocorporeo, trattandolo di fatto come oggetto di manutenzione o come perennemente invalido, e quindi perennemente bisognoso della nostra azione compensativa».
Aldo Masullo: «Va detto, Sarantis, che l’antropologia del nostro tempo è segnata dalla tesi centrale di Heidegger: l’esistenza è “cura”, coinvolgimento strutturale dell’uomo nella vita del mondo. Esistere è portare sempre con sé il peso del mondo. La profondità di un tale coinvolgimento va considerata a livelli diversi, cioè risolta negl’impegni correnti della quotidianità o all’opposto espressa nel sentimento improvviso e inquietante che il tutto è nulla, e dunque nel senso devastante della propria nullità. Il termine tedesco Sorge significa appunto sia l’abituale “cura”, cioè ogni preoccupazione della quotidianità, sia l’“angoscia” che senza perché in certi momenti s’insinua “come nebbia” nell’anima, cioè il senso della nullità di tutto. L’attacco dell’angoscia viene per lo più prevenuto o almeno nascosto dal gioco delle svariate mascherature sociali, e così confuso con la dimestichezza della cura. Forse si coglie ancor meglio il nocciolo della questione, se si tiene presente che quanto più la cura si riduce al desiderio di narcisistica assistenza, incrementando la pigra passività, come la mascheratura sociale oggi dominante comporta, tanto più si sottrae all’uomo la sua forza più propria, l’azione come coraggio inventivo, piacere di formare se stesso nello scambio con altro e con gli altri».
S. Thanopulos: «Viene da pensare che la cura non possa ignorare l’angoscia, nessun coinvolgimento profondo può dissociarsi dal suo opposto, il senso del nulla la cui estensione misura l’incuria. Interrogata dall’angoscia, la cura non ha tuttavia come suo oggetto la sofferenza. Dire “curare il dolore”, è un modo comune di esprimersi, ma non è esatto. La cura è “un prendere cura” del gusto del vivere che include il patire. Come tu hai ben chiarito, un soffrire che è anche provare, esperire. Prendere cura implica la reciprocità, l’incontro di un coinvolgimento con un altro coinvolgimento. Nessuno si coinvolge da sé».
A. Masullo: «Vorrei ribadire il primato della cura di sé. Non è forse la sua assenza la malattia mortale della nostra società? Non aver cura di sé vuole appunto dire non coinvolgersi, non essere attenti alle differenze, in breve essere indifferente. Se leggo un libro, che pur mi piace e con i cui pensieri facilmente consento, ma non mi curo di approfondirne il discorso, coglierne le ragioni, seguire i fili più sottili della sua trama per rendere sicuro il mio consenso e provare la gioia di possedere un’immagine delle cose che mi mancava, se mi abbandono pigramente al consumato piacere della prima lettura, mostro di non avere cura di me, della mia intelligenza. Quanto alla reciprocità, essa è la forma complessa e completa della cura: è il momento in cui la vita, di cui abbiamo cura, ha a sua volta cura di noi».
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