Premio Europa tra tradizione e innovazione
A teatro La diciassettesima edizione della manifestazione porga quest'anno l’Italia sulle rive della Neva. In vetrina le ultime opere di Milo Rau, Circus Cirkör, Julien Gosselin e Tiago Rodriguez
A teatro La diciassettesima edizione della manifestazione porga quest'anno l’Italia sulle rive della Neva. In vetrina le ultime opere di Milo Rau, Circus Cirkör, Julien Gosselin e Tiago Rodriguez
Il Premio Europa per il teatro è tornato quest’anno (alla sua 17esima edizione) a San Pietroburgo, meravigliosa città vetrina della repubblica russa, che già l’aveva ospitato nel 2011. E la manifestazione nata a Taormina tanti anni fa è entrata in una grande operazione culturale di cui l’Italia è stata protagonista sulle rive della Neva. Era infatti il nostro paese l’ospite principale del Forum della cultura, un investimento molto cospicuo di prestigio e di immagine, oltre che economico, ai massimi livelli (presenti tra l’altro l’Accademia di Santa Cecilia e l’Accademia della Scala) che rendeva molto ricca e articolata la settimana, a cui non è mancata la presenza di Putin in persona.
IL TEATRO, che in Russia continua a godere di un’importanza e un’affluenza molto notevoli, forte di una tradizione secolare, ha celebrato il suo Premio Europa che continua a costituire un luogo privilegiato di osservazione, sensibile agli aspetti positivi dell’intreccio fecondo tra innovazione e grande tradizione. Così era nato, sullo slancio degli entusiasmi europeistici di personalità come Giorgio Strehler e Jack Lang, e così ha saputo mantenersi in questi decenni sotto la regia discreta ma ferrea di Alessandro Martinez. Sul suo palcoscenico sono passati tutti gli artisti di valore, restando una occasione praticamente unica, di vetrina e di confronto tra gli artisti di tutte le patrie, piccole e grandi. È stato così anche quest’anno, come dimostra la lista stessa dei premiati che esprimono linguaggi, tradizioni e aspirazioni assai diversificati tra loro.
Se i premi speciali sono andati «di rigore» a due nomi di peso come il regista russo Valery Fokin (direttore a Pietroburgo del teatro nazionale Alexandrinsky) e alla grande attrice catalana Nuria Espert (musa di un teatro che oggi appare ormai storicizzato), diversa è la situazione dei registi più giovani: lo svizzero Milo Rau, lo svedese Circus Cirkör, Jan Klata slovacco, il francese Julien Gosselin, il portoghese Tiago Rodriguez, il coreografo ben noto anche in Italia Sidi Larbi Cherkaoui. Assenti Gosselin (in scena proprio ora al parigino Festival d’Automne un suo colossale lavoro sui racconti di Delillo) e Milo Rau che non ha ottenuto il visto russo per un suo spettacolo su Mosca assai critico. Gli altri, oltre a mostrare le loro opere, sono stati oggetto, a convegni di approfondimento.
A VEDERLI in maniera così sistematica, qualcuno può aver forse deluso: Tiago Rodriguez ad esempio scopre un proprio lato schematico e ripetitivo che rischia di far apparire scontati i suoi lavori (ma questo non toglie che abbia una sorta di personale in corso anche lui al Festival d’Automne…). Ma il Premio ha anche la buona abitudine di coinvolgere con particolare attenzione gli artisti già emersi e premiati nelle precedenti edizioni, quasi a favorire lo scambio tra generazioni ed esperienze diverse. E anzi proprio tra questi «ritorni» sono emerse le immagini più forti da riportarsi indietro da Pietroburgo. Lev Dodin e Andrey Moguchy, entrambi vincitori del riconoscimento in anni passati, ed entrambi russi, sebbene di stile ed età abbastanza lontani tra loro. Moguchy, 45 anni, si era già fatto conoscere nel 2011 (purtroppo è ignoto al pubblico italiano), ma questa volta, nel teatro Tovstogonov , sulle rive della Fontanka, di cui è direttore dal 1913, ha presentato ben tre sue creazioni: Alice (interpretata da una meravigliosa attrice ottantenne), Il governatore tratto dai racconti di Andreev, La foresta ispirata a un dramma di Ostrovsky e trasformata in una vera opera cantata, mimata e di grande impatto visivo. Tutte opere di origine letteraria, ma tutte dense e avvincenti: tre piccoli capolavori. Lev Dodin invece ha catturato tutti con un suo Amleto, suo perché giustamente ne firma il testo. Alla storia del principe danese infatti incrocia brani da Romeo e Giulietta (per l’amore con Ofelia) del Macbeth (la cui Lady offre le giuste parole alla madre di Amleto), e poi della Tempesta e di Re Lear. Senza forzature, anzi dando all’opera un grande respiro, quello di uno studio (e di un amore) per tutta l’opera shakespeariana.
CON RISULTATI scenici strepitosi, ottenuti da una scena solo apparentemente spoglia e involta nella plastica, e grazie a un cast di attori bravissimi, in grado di conferire le ombre più peccaminose e colpevoli ad ogni singolo personaggio. Gli attori si dice siano i migliori della scena russa, ma a fianco allo scattante Amleto di Danilo Kozlosky, è ben nota in Italia dallo schermo la Gertrude di Ksenia Rappaport. Fantastici! E Dodin, con il peso della sua maestrìa, si è potuto permettere alla cerimonia di consegna dei premi anche una vibrante protesta contro le persecuzioni cui è sottoposto un altro artista, Kirill Serebrennikov, regista di teatro e di cinema (un suo film è in sala in Italia in questi giorni), tra gli applausi generali e il silenzio imbarazzato della nomenclatura russa presente in sala.
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