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Premiata Danielle Blunt e l’autodifesa digitale delle sex workers

Premiata Danielle Blunt e l’autodifesa digitale delle sex workersDanielle Blunt, sew worker e fondatrice del collettivo Hacking//Hustling

La storia Tra gli award annuali della Electronic Frontier Foundation, la più autorevole organizzazione internazionale per i diritti digitali, c'è la donna che ha organizzato la resistenza delle sex workers alle nuove leggi Usa per il controllo in rete

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 29 settembre 2020

“The winner is … Danielle Blunt”. In realtà è solo una delle vincitrici, non l’unica. E non ci sarà neanche l’enfasi dell’annuncio, visto che i nomi dei “premiati” sono stati già anticipati. Eppure la cerimonia in streaming del 15 ottobre, nella quale la Eff, l’Electronic Frontier Foundation – la più autorevole organizzazione internazionale per i diritti digitali, una sorta di Amnesty per le libertà della rete ma più combattiva – assegna gli annuali award sarà comunque diversa dal solito.

Perché coincide col trentennale dell’associazione e le cose sono state organizzate in pompa magna. Ma soprattutto perché, oltre ai tre ricercatori – Joy Buolamwini, Timnit Gebru e Deborah Raji – che per primi nei loro studi hanno denunciato l’impostazione razziale degli algoritmi, oltre all’OTFC, l’associazione che mette a disposizione programmi e mezzi per chi è ai margini della vita digitale, fra i vincitori c’è lei: Danielle Blunt. O Dominatrix, come a volte si fa chiamare. 

Vive a New York, è una sex worker, è un’organizzatrice di un importante collettivo di sex workers. È fra le fondatrici di “Hacking / Hustling”. Che non è più solo un sito: è una comunità, uno strumento di difesa dalle discriminazioni, dalla violenza. Piano piano è diventato anche un centro di produzione artistica, di discussione. Di elaborazione teorica. Un luogo dove si mettono a punto le strategie di difesa, digitale e non solo, di chi lavora nel settore.

Da lì si è partiti, e idea dopo idea, hanno messo a punto una piattaforma. Che ora è anche un vero e proprio progetto politico: per lavorare – parole loro – “all’incrocio fra tecnologia e giustizia sociale”. Per sconfiggere la sorveglianza, per “sconfiggere la violenza dello Stato”. Le discriminazioni. Tutte. Un luogo, dunque, delle sex workers ma anche delle loro “complici”, delle donne delle comunità nere. O di chiunque viva male nell’America di Trump.

Tutto è cominciato non molto tempo fa, nel 2018. Quando il congresso americano ha varato definitivamente una legge che – come tutte le leggi statunitensi– è conosciuta soprattutto con l’acronimo: Sesta (Stop Enabling Sex Traffickers Act). È una sorta di “legge quadro” che ha dato la possibilità ai singoli Stati americani di poter varare norme per prevenire tutto ciò che riguarda il “traffico sessuale” on line. Se ne è parlato poco perché fra gli obbiettivi annunciati c’era quello di combattere l’abuso dei minorenni (come se la pornografia infantile passasse per il Web ufficiale) e quindi la “Sesta” non ha incontrato molta opposizione. 

Chi ci ha rimesso, e tanto, invece, sono state loro, le sex workers. Perché le norme – vaghe nella prima definizione – hanno permesso agli Stati più reazionari di minacciare i gestori dei siti: o cancellate tutte le pagine Web, anche quelle con semplici fotografie o vi accusiamo di “facilitare la prostituzione”. Col rischio del carcere, di multe abnormi e di chiusure. 

Così in pochissimo tempo sono stati oscurati quasi tutti i siti delle sex workers ospitati dai vari providers. Pagine Web  – dicono – che in qualche modo consentivano loro di lavorare con più tranquillità. Non solo ma molte da un giorno all’altro si sono trovate senza più le loro agende, i loro contatti, i loro appuntamenti. 

Danielle Blunt ha cominciato allora ad organizzare le sue colleghe. Hanno preso contatto con collettivi di avvocati, provando a sfruttare le pieghe della legislazione. Ma soprattutto hanno cominciato a spiegare con seminari, corsi, lezioni on line, come si possono creare spazi autonomi in rete. Autonomi e lontani dalla legge.

Seminari, riunioni. Incontri. Sempre più partecipati. Quelli col movimento Lgbtq+ sono arrivati quasi subito, poi quelli con le comunità dove vivono. Nei quartieri dove vivono. Ed è arrivato spontaneo e facile pensare che gli spazi più sicuri sul web per le sex workers dovevano diventare un pezzo di una rivendicazione più grande: per progettare “spazi più sicuri per chiunque in questi tempi è vittima della criminalizzazione, voluta dallo Stato, che ha un impatto sproporzionato sulle comunità di colore, i migranti, le persone lgbtq-gnc, le persone diversamente abili”. 

Sono diventate una comunità, si diceva. Sempre più larga come testimoniano i loro blog. Che oggi è in campo su un’altra battaglia. Contro una nuova legge, in discussione in queste settimane, la Earne It Act. Una norma, drammaticamente bipartisan, che, se passasse così com’è concepita, consentirebbe addirittura di minare la protezione dei linguaggi criptati, obbligando i provider ad introdurre “finestre” dalle quali la polizia potrebbe osservare qualsiasi scambio on line. Il tutto, come sempre, nel nome della lotta alla pedopornografia. 

Danielle Blunt sa che quello è solo un pretesto. Per un controllo che non avrebbe più limiti. E sa come ci si attrezza a combattere l’oppressione digitale. L’hanno premiata per questo. 

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